Era passata mezzanotte e giravano in cerca di prostitute, ma la città sembrava morta. Mi trovarono un letto in un dormitorio, pagarono loro il portiere: «Dono dei russi! » e scomparvero nella notte. Mi svegliai in un alba gelida, con le montagne splendenti sotto un cielo di porcellana. Sì, era dolorosamente bello. Nella città semivuota il mio arrivo non era passato inosservato: nessuno sano di mente veniva a Jagodnoe senza un valido motivo. Due giornalisti locali mi condussero più a sud lungo il fiume locale, fino a Serpentinka. La strada era lastricata di ghiaccio e gli affluenti della Kolyma intorbidati da vecchi mucchi di materiale di scarto che li seguivano simili a detriti di talpa. I tumuli più imponenti delle montagne sembravano repliche stagliate contro il cielo. Le rive ospitavano draghe abbandonate. I deportati erano scomparsi da quarant’anni e i cercatori d’oro avevano preso il loro posto. Ma negli ultimi anni più della metà se n’era andata alla spicciolata, mi dissero i giornalisti. Qua e là,’ dalla strada appariva qualche insediamento sventrato, insieme allo scheletro di una fabbrica o di una fornace di mattoni. Su uno sperone sopra la strada che scendeva serpeggiando fino al fiume ci accolse Serpentinka.
Pavlov e Garanin, i nuovi signori del Dal’stroj, ne avevano fatto un centro di tortura e sterminio. Era il cuore nero della Kolyma. Su uno strapiombo vicino alle celle d’isolamento, due trattori venivano tenuti con i motori al massimo per soffocare gli spari e le grida delle esecuzioni. Nel 1938 vi morirono ventiseimila prigionieri, centinaia per mano dello stesso Garanin. I corpi venivano trascinati dietro la collina su slitte trainate dai trattori, oppure i prigionieri venivano condoni ancora vivi e a occhi bendati sull’orlo delle fosse e uccisi con un colpo di fucile alla testa. Poi, in linea con la politica di Stalin di liquidare i responsabili degli apparati di sicurezza, anche Garanin fu fucilato, e con lui tutto il personale di Serpentinka, e il campo venne raso al suolo. Vagammo in quella vacua vastità accompagnati dallo scricchiolio della neve sotto i piedi. Nel silenzio perfino le voci erano troppo rumorose. Un blocco di granito circondato da filo spinato e fiori di plastica era stato posato in memoria delle « decine di migliaia » assassinate dallo Stato. Luccicava sotto un manto di ghiaccio. Poco oltre, tra mucchi di neve e cespugli moribondi, un sentiero spettrale andava a perdersi nel nulla.
Guardi attorno con gli occhi dei morti, e non vedi speranza. Nessuno è sfuggito. Chiamavano Kolyma «il pianeta», privato di qualsiasi futuro, al di fuori di qualsiasi realtà. Nel tentativo disperato di rifugiarsi all’ospedale, i prigionieri si iniettavano kerosene sotto la pelle, si strofinavano l’acido sulle palpebre, si mozzavano le dita, simulavano la follia. Ma a poco a poco si riducevano a selvaggi, affamati e umiliati. Diventavano gli anima l in cui le autorità avevano deciso di trasformarli, così la loro morte non lasciava la coscienza sporca. Si univano agli altri morti viventi che vagavano nel campo senza più cibo, poi scivolavano nell’oblio. Indeboliti dalla pressione sanguigna troppo alta, desideravano solo cli rivedere la famiglia prima di morire. L’unico lavoro forzato si riduceva a quello di seppellirsi a vicenda. A volte nessuno sapeva di chi fossero quei cadaveri. I giovani diventavano vecchi in pochi mesi. Le otturazioni dei denti potevano anche fornire più oro di quanto fossero riusciti a estrarne nella vita. Venivano buttati nelle fosse comuni. Più a ovest, non lontano da dove dormii la notte successiva, si trova la località abitata più fredda del mondo. A Ojmjakon è stata registrata una temperatura di -71 gradi centigradi.
Basta un freddo molto meno intenso a scheggiare l’acciaio, a far scoppiare gli pneumatici e a far scaturire scintille da un lance con un colpo d’ascia. Quando il termometro scende così, il vapore del fiato si cristallizza e cade a terra in un tintinnio che viene chiamato « sussurro delle stelle». Tra la gente del posto si dice che nei momenti di freddo estremo le parole stesse gelano e cadono a terra. Poi in primavera riprendono vita e cominciano a parlare, allora all’improvviso l’aria si riempie di pettegolezzi superati, battute mai sentite, pianti cli dolore dimenticati, parole d’amore rinnegate da tempo. Il pianto che potrebbe salire da questa terra non porta riflessione. In un raro passaggio di disperazione, il poeta Mandel’stam, morto sulla strada per Kolyma in un campo di transito vicino a Vladivostok, immaginò che la sordità della Russia si portasse via ogni significato. Non c’era futuro capace di sentire. A dieci passi le nostre parole non hanno suono... Ma le parole ritornarono... Mandel’stan, Shalamov, Ginzburg, Babel’: ritornarono per perseguitare e minare le basi dell’impero di ghiaccio, anche dopo che quelli che le pronunciarono se ne sono andati. Quando la corriera scese verso Magadan, la capitale del dolore, l’alba doveva ancora sorgere.
La città dilagava in una costellazione di luci di fronte al Pacifico invisibile, e mi resi conto con raccapriccio che era bella. Schiacciata tra il mare e le colline, la strada principale scendeva e saliva tra facciate di stucchi dorati e pietra, e poi scompariva verso il porto. Dopo avere trovato un albergo e superato le solite discussioni sul mio visto, uscii incontro a un vento pungente. Tutto era in ordine, o quasi. Le bandiere in piazza Lenin si agitavano sui pennoni e Lenin stesso (che era in piedi con le mani in tasca, senza nulla da offrire) teneva lo sguardo fisso, con luciferina autorità, sul punto in cui gli uffici delle miniere d’oro avevano sostituito il palazzo del Dal’stroj. L’edificio più alto della città — il quartier generale mai entrato in funzione del vecchio partito comunista — era stato lasciato a metà dieci anni prima e occhieggiava alle sue spalle. il vento fischiava tra le aperture. Lungo la strada principale gli uffici e i condomini con i frontoni alti e i colonnati sembravano costruiti per calpestare la terra e i suoi ricordi per sempre, con bandiere e falci e martello in stucco.
Più avanti incombevano gli edifici costruiti dai prigionieri di guerra giapponesi, con le tipiche facciate a intonaco color miele. Tutto il cuore della città era stato costruito da detenuti. C’era ancora il vecchio ufficio postale, e il teatro (trasformato in mercato) dove attrici e ballerine condannate cantavano e ballavano per i loro persecutori. In quegli anni, i prigionieri che resistevano fino alla fine della pena venivano assegnati qui, al limbo di Magadan. Un luogo di strani incontri e di ricordi insopportabili. I sopravvissuti, scrisse la Ginzburg, avevano lo sguardo onnisciente dei serpenti. E la paura non passava. Sapevano che il prossimo terremoto politico poteva farli di nuovo arrestare.
Nessuno si fidava, nessuno si confidava. Era un universo quasi esclusivamente maschile. La scarsità di donne rendeva le mogli infedeli, dicevano gli uomini, e attirava le prostitute. « La Kolyma è una terra dove il sole non scalda, i fiori non profumano e le donne non hanno cuore». Nel 1980 Magadan era ancora la capitale russa del divorzio. Ormai la popolazione era ridotta a meno di centocinquantamila abitanti, ed era ancora in calo. Molti erano venuti a lavorare qui temporaneamente per guadagnarsi il « rublo lungo » dei salari riservati alla Siberia orientale, ma ora stavano tutti tornando a casa. Le miniere e l’industria ittica erano in declino. li freddo era insopportabile e non c’era in giro quasi nessuno. Il vento spazzava la neve dalle colline. Seguii la via dei Trasporti che aveva visto salire dal porto le colonne dei detenuti. Era tristemente anonima.