di Federico Rampini
Quante volte è già morto il Sogno Americano, per poi rinascere in modo spettacolare?
Una volta accadde, per esempio, negli anni Settanta. Quando un giovane Donald Trump tentava di farsi strada a New York: in una metropoli devastata da violenza e criminalità, droga e povertà, con un municipio sull’orlo della bancarotta. Molti in America, e ancora più in Europa, pensavano che gli Stati Uniti avessero imboccato la strada di un declino terminale, irreversibile, fatale. In quanto a New York, era una cloaca immonda da visitare con molte precauzioni: per non finire rapinati o morti ammazzati. La storia andò diversamente (e in quella storia lo stesso Trump fece un «cameo», una breve apparizione in un ruolo non da protagonista).
Il precedente della caduta agli inferi di New York mi è tornato in mente al mio rientro in questa città ieri, dopo tre settimane di assenza. Sono reduce da un lungo giro in Europa: Bruxelles, Budapest, Vienna, Milano. Nel corso del quale ho raccolto giudizi durissimi sull’America – sia pure con delle eccezioni – culminati nella giornata di ieri con il coro di condanne per le frasi allucinanti di Trump su Gaza.
La parola America viene associata a un incubo, da molti europei.
Per ingannare il tempo sul volo di ritorno mi sono rivisto «The Apprentice», il film dell’anno scorso che ricostruisce l’esordio di Trump, i suoi primi passi nel business edile. Rivedere quel film ora che lui è tornato alla Casa Bianca, e nel clima di panico che regna in Europa (in parte condiviso a New York dalla sinistra democratica che qui è ancora maggioritaria), è interessante.
«The Apprentice» non è certo apologetico, al contrario: descrive Trump come un giovane squalo, cinico e senza scrupoli, addestrato a un’etica degli affari piratesca da un avvocato (Roy Cohn) che era a tutti gli effetti un criminale. Tant’è che quando il film uscì l’anno scorso in piena campagna elettorale Trump cercò di bloccarlo, accusandolo di imbastire un’operazione diffamatoria per distruggere la sua immagine davanti agli elettori. Se quello era il proposito, evidentemente non è stato raggiunto.
Rivisto ora, il film rimane un ritratto implacabile. Però si presta anche a due sorpendenti letture positive, controcorrente rispetto al clima apocalittico che si respira in questi giorni.
Trump ne esce fuori come un capitalista predatorio e immorale, sì, però al tempo stesso coraggioso e lungimirante: si batte per costruire il suo primo albergo di lusso a New York in un quartiere (attorno a Grand Central Station) che allora era degradato, malfamato, abbandonato. Quasi nessuno crede nel suo progetto: dal sindaco ai banchieri. Perché nessuno ha fiducia che New York possa uscire dalla spaventosa decadenza in cui si è inabissata in quegli anni. Dunque l’apprendista Trump riesce ad anticipare quello che pochi altri intravvedono all’inizio degli anni Settanta: che la Grande Mela si risolleverà dal baratro. Nella fattispecie la zona di mid-town Manhattan attorno a Grand Central, Empire State e Chrysler Building, oggi non ha certo quell’alone di degrado, pericolo e impoverimento che ebbe allora (anche se durante la pandemia abbiamo sfiorato qualcosa di simile).
Oltre a riconoscere implicitamente qualche «merito» al giovane Trump, il film «The Apprentice» ci riporta in un’epoca così tragica che sembra quasi irreale, per chi non l’ha vissuta. E al tempo stesso è un viaggio all’indietro nel tempo che offre una miriade di analogie interessanti.
Quando Trump muove i suoi primi passi – usando il business paterno come base di partenza – l’America è sconvolta da crisi economiche a ripetizione (lo shock petrolifero del 1973 si sovrappone a un’inflazione già scatenata da forti conflittualità sindacali e all’esplosione del deficit pubblico). L’industria Usa è stremata dall’invasione di importazioni straniere, in provenienza soprattutto da Giappone e Germania. Le tensioni razziali sono all’estremo, s’intrecciano con le guerre ideologiche fra destra e sinistra, acutizzate dalla guerra del Vietnam.
La New York di cinquant’anni fa è un laboratorio impazzito dove tutte quelle patologie nazionali assumono proporzioni estreme. Il mercato immobiliare, depresso, è solo uno dei tanti sintomi di crisi. La città è in preda a criminalità violenta, scontri razziali, tossicodipendenze, e vi esploderà anche l’epidemia di Aids facendo un’ecatombe di vittime soprattutto nella comunità gay (anni Ottanta, il periodo in cui il film si conclude). Il municipio è sull’orlo della bancarotta. Poiché New York ha un governo locale di sinistra, mentre a Washington è arrivato il presidente repubblicano Gerald Ford dopo le dimissioni di Richard Nixon, il messaggio della Casa Bianca è: no al salvataggio della metropoli più grande d’America, il contribuente non deve pagare per la cattiva amministrazione locale, New York «può crepare» (frase letterale di Ford, che viene sbattuta in prima pagina a caratteri cubitali dai giornali locali, tra cui il tabloid New York Post comprato da Rupert Murdoch). Sullo sfondo c’è anche un panorama di corruzione della politica Usa che il film restituisce bene: tra le prime immagini c’è proprio il celebre discorso di Nixon costretto a difendersi dichiarando in tv che «il vostro presidente non è un truffatore». È il discorso in cui Nixon annuncia le proprie dimissioni per lo scandalo del Watergate, anno 1974.
Nessuno avrebbe scommesso molto sul Sogno Americano, in quegli anni. I vincitori della competizione internazionale erano giapponesi e tedeschi, mentre l’economia Usa sembrava incapace di ritrovare dinamismo. La società civile negli Stati Uniti appariva lacerata in modo insanabile. L’autostima degli americani era crollata, la loro fiducia nelle istituzioni e nei leader era sprofondata.
Poi, quando il film si avvia in chiusura, è già cominciato un periodo diverso. È arrivato il repubblicano Ronald Reagan alla Casa Bianca. Già con lui si affaccia lo slogan «Make America Great Again»… Reagan l’attore di serie B, il cowboy rozzo e ignorante, o il guerrafondaio: tre versioni del dileggio e del disprezzo con cui lo circondavano gli europei. Reagan avrebbe fermato l’avanzata giapponese col protezionismo, sconfitto l’Unione sovietica nella guerra fredda, e sotto di lui venne ricostruita la competitività americana, fino a valergli un ammirato elogio postumo da Barack Obama che lo ha definito come uno dei più grandi presidenti della storia.
Non sto facendo alcuna allusione alla presidenza Trump, perché troppe sono le differenze. È la traiettoria storica dell’America, quella che conta. L’avevamo data per finita. E New York era il più infame buco nero in quella decadenza nazionale. È andata a finire molto diversamente. C’è qualcosa, del Sogno Americano (e newyorchese), che agli europei è sempre sfuggito, per cui non ne capiscono la vitalità profonda. Salvo quelli che continuano a trasferirsi qui.
6 febbraio 2025 - Corriere della Sera