Esce Visera, terribile preludio ai Racconti della Kolyma. Lo scrittore forzato Varlam Salamov racconta la nascita dei lager sovietici. Saviano: "Editori vicini al partito comunista lo ritennero reazionario e favolistico" di Giuseppe Ghini 29/06/2010 - Il Giornale.
C’è una letteratura che spesso si preferisce dimenticare, rimuovere. Šalamov, l’autore dei Racconti della Kolyma, appartiene a questa letteratura. Non per ragioni ideologiche, almeno non noi. Per ragioni ideologiche l’ha rifiutato l’Einaudi degli anni Settanta, l’ha rimosso l’intelligencija di sinistra, quella che si dimetteva pur di non presiedere la Biennale del dissenso del 1977, quella che ancor oggi si scandalizza del revisionismo relativo ai Lager nazisti e che ha sulla coscienza un peccato identico di negazionismo per quanto riguarda i GULag sovietici.
No, non è (solo) per questo che viene rimosso e accantonato uno scrittore eccelso come Šalamov. Il fatto è che i suoi scritti ci ricordano implacabilmente di quali abissi di male è capace l’uomo, anzi gli uomini concreti. Di quali abissi di male siamo capaci noi. E questo proprio non siamo disposti ad ammetterlo, a ricordarlo. Non solo. Šalamov ci ricorda anche qual è il prezzo che dobbiamo affrontare per rimanere uomini. E non nell’Unione Sovietica di Stalin, ma ora, qui, sempre. Per questo è uno scrittore scomodo; per questo, però, è uno scrittore eterno. Višera, il cosiddetto antiromanzo che Claudia Zonghetti traduce per la prima volta in italiano per l’Adelphi (pagg. 234, euro 18), appartiene a questa letteratura scomoda, che ci incalza nella nostra umanità. Šalamov vi racconta del suo primo arresto e delle sue prime esperienze del GULag, ancora negli anni Venti, quando il sistema concentrazionario sovietico era giovane, quando ancora la parola zek (da zakljucennyj, il recluso dei campi sovietici) non esisteva ancora. «La perfezione che incontrai alla Kolyma non era il prodotto di una mente geniale e malvagia - venne a poco a poco. Per accumulo di esperienza», scrive infatti l’autore. Anche se sono contemporanee ai Racconti della Kolyma, non c’è in queste pagine la stessa perfezione formale. Vi risuona tuttavia più chiara la voce dell’autore-recluso, dello stesso Šalamov. L’inizio, non a caso, racconta della sua iniziazione all’universo concentrazionario: «Mi arrestarono il 19 febbraio 1929. Un giorno, un’ora che considero l’inizio della mia vita sociale, il mio primo, vero e durissimo banco di prova.
Dopo lo scontro con Merezkovskij quand’ero ancora ragazzo, dopo la passione per la storia del movimento di liberazione russo, dopo la fase vulcanica dell’università di Mosca nel 1927, in una Mosca vulcanica di suo, ero chiamato a mettere alla prova le mie autentiche qualità spirituali». E queste qualità spirituali emergono fin da subito nel giovane Šalamov imprigionato nel carcere moscovita delle Butyrki, accusato di «propaganda e organizzazione sovversiva», e condannato a scontare tre anni di lavori forzati in uno dei primi lager sovietici, quello di Višera, nel Nord degli Urali. Sono qualità primarie, semplici come numeri primi, irriducibili. Qualità scoperte nella totale solitudine. «La regola più elementare - una comune regola etica, nella migliore delle tradizioni - era astenersi dal rendere una deposizione indipendentemente dalle circostanze». Si tratta del principio universale «non tradire» a cui il carcerato Šalamov impegna se stesso fin dalle prime ore e per tutta la vita. «Non tradire» a nessun costo ed essere onesti. «Per me l’onestà, la forma più elementare di onestà era il migliore dei pregi. Il difetto peggiore la viltà».
Onestà, integrità, significava essere fedeli alla propria coscienza. «In quel periodo avevo deciso fermamente - una volta per tutte! - che avrei agito solo secondo coscienza. Infischiandomene delle opinioni altrui. Bella o brutta, avrei vissuto la mia vita senza dar retta a nessuno, né ai “grandi uomini” né ai “piccoli”». Sono questi valori di umanità che permettono e obbligano ad un tempo Šalamov a prendere le difese di un carcerato picchiato senza motivo («Se non mi fossi fatto avanto non avrei più avuto rispetto per me stesso»). Sono questi valori che gli consentono di resistere alla corruzione materiale e soprattutto morale del GULag. Višera presenta infatti uno spaccato della storia del sistema concentrazionario sovietico, dove la riorganizzazione su base economica - la cosiddetta riforgiatura - portò ad una corruzione prima sconosciuta, al dominio dei delinquenti comuni, alla legge della jungla, alla prevaricazione di tutti contro tutti. In questa situazione il merito di Šalamov è di resistere, di non cedere.
È la grandezza, l’esemplarità che gli ha riconosciuto Roberto Saviano, autore di un significativo saggio introduttivo che segue l’intervento dello scorso anno nel programma televisivo di Fazio. Di fronte a un meccanismo di micidiale e scientifica spersonalizzazione, Šalamov dimostra che si può essere fedeli a se stessi, alla propria coscienza, che si può evitare di cadere nella disperazione. Ed è una verità che vale per lui, per il forzato dei GULag staliniani, ma vale anche per noi. Anche noi possiamo ripetere la nobile protesta di un personaggio di Šalamov, che, nudo, davanti al guardiano che gli chiede cos’altro abbia da dargli, gli urla in faccia: «No, l’anima non ve la do!».
http://www.ilgiornale.it/news/questo-uomo-nonostante-gulag.html