La vita nei lager comunisti

In questo splendido racconto, Varlam Shalamov racconta brevemente le condizioni di vita degli schiavi sovietici nei GuLag. Un racconto assolutamente da leggere (assieme a tutti gli altri "racconti di Kolyma" e Arcipelago Gulag) per chi ancora si dichiara comunista.

Il mullah tataro e la vita all’aria aperta - di Varlam Shalamov
I Racconti della Kolyma vol.1 pag. 103-114
Nella cella della prigione faceva così caldo che non si vedeva una mosca. Le enormi finestre con le grate di ferro erano completamente spalancate, ma questo non arrecava alcun sollievo perché dall’asfalto rovente del cortile arrivavano ondate d’aria calda e nella cella c’era persino più fresco che fuori.

Ci si era sbarazzati di tutti gli indumenti e centinaia di corpi nudi che sudavano esalando pesanti vapori si voltavano e rivoltavano sul pavimento — sopra i tavolacci a castello faceva troppo caldo. Ogni volta che il comandante faceva l’appello, i detenuti si mettevano in riga, vestiti con le sole mutande, restavano un’ora al gabinetto per i loro bisogni, annaffiandosi in continuazione con l’acqua fredda dei lavabi. Ma il sollievo non era duraturo. I podnarniki, quelli che per mancanza di posto erano sistemati per terra sotto i nary, i tavolacci, si erano ritrovati all’improvviso titolari dei posti migliori. Bisognava prepararsi a raggiungere «gli accampamenti lontani» e si scherzava, con il cupo umorismo della galera, dicendo che dopo la tortura del bagno di vapore ci sarebbe stata la tortura del congelamento.

Un mullah tataro, un detenuto sotto istruttoria per il famoso caso della «Grande Tataria», di cui noi eravamo già informati molto tempo prima che ne accennassero i giornali, un uomo solido e sanguigno di sessant’anni, con il petto possente coperto di peli grigi, e due occhi scuri e tondi dallo sguardo vivace, diceva, asciugandosi continuamente il cranio calvo e lucente con uno straccetto bagnato:

— Basta che non mi fucilino. Se mi appioppano dieci anni è una fesseria. Una pena del genere può far paura solo a chi conta di vivere fino a quarant’anni. Ma io conto di vivere fino agli ottanta.

Al ritorno dall’ora d’aria, il mullah saliva di corsa al quinto piano senza nessun affanno.
— Se me ne danno più di dieci, — continuava le sue riflessioni ad alta voce, — in prigione me la caverò lo stesso, fossero anche vent’anni, ma se è nel lager che mi mandano — il mullah tacque ...vita all’aperto, aria pura, allora dieci anni.

Questo mullah intelligente e sveglio mi è ritornato in mente oggi, rileggendo le Memorie di una casa morta. Il mullah sapeva cos’era «l’aria pura». Morozov e la Figner (due rivoluzionari incarcerati nelle prigioni zariste NDR) trascorsero vent’anni nella fortezza di Schlusselburg, con un regime carcerario severissimo e ne uscirono perfettamente in grado di lavorare. La Figner ebbe forze sufficienti per continuare ad occuparsi dell’attività rivoluzionaria e poi scrivere dieci volumi di memorie sugli orrori patiti, mentre Morozov pubblicò una serie di noti lavori scientifici e fece un matrimonio d’amore con una ginnasiale.

Nel lager, perché un uomo giovane e in buona salute — che ha iniziato la sua carriera sul fronte di taglio di un giacimento aurifero, in inverno, all’aria pura si trasformi in un dochodjaga, un morto che cammina, bastano da venti a trenta giorni di lavoro, con orari giornalieri di sedici ore, senza giorni di riposo, con una fame costante, gli abiti a brandelli e le notti passate sotto una tenda catramata piena di buchi mentre all’esterno la temperatura scende a meno sessanta gradi, con i pestaggi dei «caporali», degli starosta scelti tra i malavitosi, dei soldati della scorta. Sono termini ampiamente verificati. Le squadre che aprono la stagione aurifera e portano il nome del loro caposquadra, alla fine del periodo di scavo non hanno più neanche uno degli uomini presenti inizialmente, a parte il caposquadra stesso, il «piantone» responsabile della baracca e qualche amico personale del caposquadra. Gli altri elementi cambiano tutti, e più volte nel corso di una stagione. Il giacimento aurifero getta senza sosta le scorie umane della produzione negli ospedali, nelle cosiddette «squadre di ristabilimento», nei centri per invalidi e nelle fosse comuni.

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