Colin Thubron - In Siberia - Capitolo 2 "Mancamento di cuore". Uno straordinario racconto per capire la vita degli abitanti e dei prigionieri che sono vissuti e morti a Vorkuta uno dei più terribili gulag dell'Arcipelago.
Mille chilometri a nord di Tobol’sk, passato il Circolo Polare Artico a bordo del bimotore Antonov, il paesaggio si trasformò. La foresta era sparita, e al suo posto baluginava una tundra senza alberi: un intricato tappeto argenteo di funghi e licheni. Non una strada o una ferrovia che lo solcasse. Per migliaia di chilometri quadrati si apriva una distesa selvaggia, costellata da una miriade di rivoli e laghetti, come se il continente si fosse trasformato in una spugna dove i fiumi si accavallavano fantasiosamente uno sopra l’altro, frantumandosi in cento direzioni diverse.
Eppure, pochi centimetri sotto il livello del suolo, il terreno è ghiacciato e duro come il ferro. Per otto mesi all'anno la neve lo sigilla. Poi, in primavera, le acque che evaporano dal permafrost affiorano in superficie, e questi strani laghi e fiumi riappaiono, effimeri. TI ritmico sommovimento del suolo — questo suo gonfiarsi e ritirarsi stagionale — deposita massi e pietre in misteriosi anelli concentrici, come se fosse all’opera una pedantesca intelligenza, e scava pozze circolari. Tuttavia la regione è pressoché inabitabile. Si espande come un protoplasma in cui la natura è ancora in via di formazione, o si è già disintegrata. A ovest si leva la pietra nuda degli, Urali. Una vibrazione bassa e continua nell’aereo mi teneva in apprensione (dopotutto era un velivolo dell’Aeroflot, e aveva solo due eliche). Una hostess distribuiva coppe di acqua frizzante e dolci stantii. Nel sedile di fianco al mio, una donna faceva le trecce alla figlia. D’un tratto, sotto di noi, dalla tundra sbucarono ciminiere, detriti neri di industrie e rovine.
Fu come uno shock fisico: Vorkuta. Per anni questo nome era suonato come una campana a morto. Nei primi anni Venti vi fu scoperto il carbone, e già nel 1934 le miniere inghiottivano un esercito di forzati incolpevoli.
Presto il luogo divenne una gemma del male nella corona dei gulag. Ti numero dei morti raggiunse le centinaia di migliaia. Le ultime vittime furono rilasciate, deboli e ormai superflue, solo nel 1959. A nord di Vorkuta, una strada circolare collega ancora le sue trenta miniere, di cui solo undici sono ancora aperte.
Quella sera mi aggiravo per la città affascinato e turbato al tempo stesso. I caseggiati e gli uffici erano lasciati all’abbandono: l’intonaco si sgretolava dai muri, e metà delle finestre avevano i vetri rotti. Un fiume biascicava fra le scorie. Passai davanti a fabbriche circondate di filo spinato e proiettori, come se ancora oggi questa fosse l’unica architettura possibile; una strada su due sboccava in una tundra disseminata di scheletrici scivoli per il carbone e di pulegge. Qui l’unica cosa che non manca è il carbone. Giace in mucchi lungo la strada e ingombra ogni area recintata. Le vie sono coperte di polvere di carbone. Quando piove, le pozzanghere luccicano nere. Il pulviscolo offusca l’aria e si insinua sotto le unghie. E alla fine ti mangia i polmoni. Le automobili fanno lo slalom tra le buche di via Lenin. Il basco in pugno, la statua del leader guarda ancora il Palazzo della Cultura dei Minatori, dalla parte opposta di piazza Lenin. La vasca d’acqua che gli sta di fronte è piena di bottiglie di vodka. Un po’ ovunque, sulle facciate ministeriali, sopravvivono le vecchie insegne scolpite: stelle rosse e martelli incrociati, torce e aste che reggono bandiere. Lungo i tetti, slogan superstiti levano clamori di tempi passati. « Alle masse di Vorkuta! », « I minatori sono i guardiani del lavoro». Non c’è la volontà di rimuoverli, né quella di restaurarli. Una a una, le lettere stanno cadendo. Mi imbattei in baracche costruite per i forzati delle miniere, che nessuno si è preoccupato di demolire. Le erbacce si arrampicavano sulle pareti di legno fino a mezza altezza, e le camerate dove c’erano i letti a castello erano piene di macerie. A volte i detenuti erano così ammassati che quasi non riuscivano a girarsi mentre dormivano. In fondo a ogni dormitorio, le stufe erano ridotte a cascate di mattoni, e graffiti in un inglese zeppo di errori, risalenti a un’epoca successiva, imbrattavano le pareti: « Lucky Streik », « Kiss my Ais »...