Ci sono anche quelli a cui sembra del tutto naturale, e per nulla ideologico, parlare di patriarcato neoliberista e di razzismo sistemico, di cultura dello stupro e di decostruzione del privilegio eterocisnormativo. E quando li chiameremo woke ci diranno: woke? Quale woke?
Gobba? Quale gobba? Ricorderete senz’altro la candida risposta di Igor, in "Frankenstein junior", al dottore che gli propone di aiutarlo con quel problemino alla schiena. Bene, tenetela a mente perché è la lama più efficace per recidere di netto un nodo già oggi ingarbugliato che fatalmente si ingarbuglierà ancora di più.
Perché le parole, all’epoca dei social network, hanno una finestra di sensatezza molto limitata nel tempo. Rivestono un campo abbastanza preciso all’inizio, poi a forza di stiracchiamenti e accomodamenti semantici sono ridotte a brandelli di stracci inservibili. E’ ciò che sta accadendo con la parola woke. Quando a usarla, qui, erano solo i pochi appassionati di guerre culturali americane, tutto sommato ci si intendeva. Ora che è sulla bocca di tutti, abbiamo a che fare con l’ennesimo sarchiapone. Come orientarsi? Alcuni commentatori americani hanno proposto delle definizioni persuasive, ma io suggerisco un criterio pratico quasi infallibile: woke è chi sostiene che l’ideologia woke non esiste.
Del resto, pochi pesci saprebbero definire l’acqua in cui nuotano. Al nostro ipotetico amico sembrerà del tutto naturale, e per nulla ideologico, parlare di patriarcato neoliberista e di razzismo sistemico, di cultura dello stupro e di decostruzione del privilegio eterocisnormativo, di mascolinità tossica e di mascolinità fragile, di identità di genere e di sesso assegnato alla nascita, di appropriazione culturale e di soggettività non binarie, di decolonialità e di intersezionalità. E quando lo chiameremo woke ci dirà: woke? Quale woke?