Finché non sono venuto io stesso in occidente e ho passato due anni guardandomi intorno, non avevo mai immaginato come un estremo degrado in occidente abbia fatto un mondo senza volontà, un mondo gradualmente pietrificato di fronte al pericolo che deve affrontare... Tutti noi stiamo sull'orlo di un grande cataclisma storico, un'inondazione che ingoierà le civiltà e cambierà le epoche. Aleksandr Solženicyn
di Riccardo Alberto Quattrini.
Sono passati esattamente settant’anni quando il 9 febbraio 1945: la polizia preleva lo scrittore russo Aleksandr Solzenicyn. Iniziò così la persecuzione che fu “compresa” dal PCI. Nato nel 1918, orfano di padre, laureato in matematica, a lungo un marxista e un leninista convinto (il miscuglio di “un marxista e di un democratico”, dirà di sé più tardi), Aleksandr Solženicyn era un capitano dell’Armata Rossa. A guerra non ancora finita. Lo acciuffarono mentre era accucciato nel fango e nella neve bagnata di una postazione da cui stavano sparando contro i tedeschi. Gli “Organi” avevano intercettato le lettere che l’ufficiale ventiseienne si scambiava con un amico e dove non erano dette cose gentili a proposito del “Capobanda”, ossia di Stalin. Di più, i due amici si proponevano di dare vita a “un’organizzazione” che riunisse quanti pensavano tutto il male possibile del comunismo reale nel loro Paese. A norma dell’articolo 58 del codice penale sovietico quella non era una colpa, era un crimine. Alle spalle del giudice istruttore che cominciò a interrogare Solženicyn, stava un ritratto in figura intera di Stalin alto quattro metri. Tra giudice e imputato non c’era molto da battere e controbattere, c’era solo da firmare carte in cui l’accusato riconosceva di essere un poco di buono. Da ufficiale dell’Armata Rossa Solženicyn era divenuto uno Zek, ossia “un detenuto” e tale rimarrà per undici anni, fino alla riabilitazione del 1957. Undici anni d’inferno trascorsi prima nel lager e poi al confino; celle dov’era rinchiuso ora con un altro detenuto ora con altri 150.
“Una giornata di Ivan Denisovic” (è il titolo del suo romanzo che riuscirà a pubblicare in una breve fase di disgelo nel 1962), che sulla base di testimonianze dirette e dell’esperienza personale dell’autore svela la dittatura comunista nell’Unione sovietica e il terrificante utilizzo della giustizia politica e del sistema Gulag. Nasce da questa esperienza uno scrittore che è tra i simboli irrinunciabili del Novecento. Prima che lo arrestassero in tutto e per tutto aveva compilato quattro taccuini in cui aveva registrato quello che aveva visto con i suoi occhi durante tre anni e mezzo della guerra furibonda contro i tedeschi, guerra che lui aveva combattuto in prima linea. I taccuini glieli sequestrarono all’istante ma non ci diedero mai un’occhiata, tanto che andarono a bruciare in una stufa. Tutto quel che è di Solženicyn e ne porta le stimmate sta nascendo adesso, durante i primi interrogatori fatti da un giudice istruttore che porta delle mostrine celesti sulla sua divisa e che non ha il minimo interesse a scovare una verità, sia essa fatta di colpa o di innocenza. Il suo solo interesse è aggiungerne un altro alla sterminata sequenza di colpevoli che il regime macina ed erutta da quando è nato, dall’Ottobre 1917, e subito Vladimiro Ulianovic Lenin aveva minacciato di schiacciare tutti gli “insetti” che osassero contrapporsi al dominio pieno e assoluto dei bolscevichi.
Alla fine di dicembre del 1973 un libro, pubblicato in Francia, proveniente dalla “cortina di ferro”, scosse il mondo occidentale. Rocambolescamente arrivato a Parigi, Arcipelago Gulag mise a soqquadro anche le coscienze di molti comunisti che presero a guardare con altri occhi agli orrori dello stalinismo. Concepito già nella seconda parte degli anni Cinquanta e scritto di nascosto nei Sessanta, Arcipelago Gulag – dopo un’epopea degna di una spy story fra interrogatori del Kgb alla segretaria di Solženicyn per sapere dove era nascosto il manoscritto e microfilm fatti passare di nascosto in Francia dove fu pubblicato in prima edizione a Parigi nel 1973. E se il debito dello scrittore con la Verità finiva in quel momento, in quel momento iniziava la storia della fortuna, e spesso sfortuna, dell’opera. Il fragore che ebbe fu pari a un’esplosione termonucleare: per la prima volta veniva raccontata dettagliatamente la vita nei campi di concentramento dell’Urss, le immense e disumane sofferenze, come si moriva e si veniva gettati nella fornace dell’oblio.
Mentre oggi Arcipelago Gulag è tradotto e letto in tutto il mondo, nell’Occidente libero ma ideologico degli anni Settanta fu quasi rifiutato, come qualcosa che non si vuole sentire, che infastidisce. Con l’eccezione della Francia, però. Dove l’apparire del libro-denuncia causò un terremoto culturale. La gauche, da Jean-Paul Sartre a Louis Aragon a Romain Rolland, subì un trauma devastante, la cui eco arriva fino a oggi: nel suo nuovo “L’identità infelice” (Guanda) Alain Finkielkraut ricorda che “Nel ’68 ci chiamavamo con orgoglio compagni, ma voleva dire soltanto (ormai lo sapevamo) che eravamo cittadini e non sudditi come un tempo, né sospetti come altrove. La lettura di Arcipelago Gulag ci insegnò quanto l’enormità del crimine fosse connessa all’ideologia, e questa rivelazione guarì molti di noi dall’arroganza intellettuale”. Arroganza che rimase alla sinistra radical-chic in America, ad esempio. Così lasciò scritto Tom Wolfe in un pezzo del 1976 intitolato significativamente “Incolpare il messaggero”: “Gli intellettuali d’Europa e d’America erano pronti a perdonare a Solženicyn molte cose […] ma per quel suo insistere che tutti gli ismi portavano ai campi di sterminio – per questo non era probabile che fosse presto perdonato –”. E infatti la campagna di sterilizzazione ebbe inizio poco dopo la sua espulsione dall’Urss nel ’74. (Ha sofferto troppo: un fissato. È uno zelota cristiano affetto dal complesso di Cristo. È un reazionario agrario. È un egotista e un rigattiere della pubblicità). Il giro statunitense di Solženicyn nel 1975 fu come un immenso corteo funebre che nessuno aveva voglia di vedere. Neanche da noi.
Anzi, l’intellighenzia italiana fu la peggiore di tutte. La colpa non era di chi aveva inventato l’orrore del sistema Gulag, ma del messaggio che lo aveva descritto. Il grido di Solženicyn rimase inascoltato. Uscito in sordina da Mondadori il 25 maggio 1974, il libro ebbe scarse recensioni sui giornali e l’autore fu o ignorato o additato a nemico della causa proletaria. Mondadori si premunì di riversare tutta l’attenzione su una star della letteratura e del giornalismo dell’epoca: Oriana Fallaci. Quella che allora era l’icona di un certo progressismo (salvo anni dopo ricredersi) fu “utilizzata” facendo uscire pochi giorni prima del libro di Solženicyn, la celebre “Intervista con la storia”, sul cui battage pubblicitario Mondadori riversò ingenti risorse, mentre allo scrittore russo che denunciava i crimini di Stalin quasi nessuna attenzione dedicò, né tantomeno si diede da fare per innescare una discussione simile a quella che si era sviluppata in Francia e negli altri Paesi europei.
La Fallaci, dunque, fu inconsapevolmente utilizzata per oscurare Solženicyn. E dire che Domenico Porzio, allora capo ufficio stampa della Mondadori, mostrava anche disappunto perché nessuno si occupava dell’Arcipelago. Come se non sapesse che l’egemonia culturale comunista aveva da tempo fatto breccia non soltanto nei giornali, ma anche in importanti case editrici come la Mondadori.
Il 20 febbraio 1974, pochi giorni dopo l’espulsione di Solženicyn dall’Urss, Giorgio Napolitano, alto dirigente del Pci, scrive sull’ Unità, e poi su Rinascita, un lungo articolo in cui definisce “aberranti” i giudizi politici del dissidente russo e approva la decisione del Cremlino di esiliarlo, di fatto riconoscendo la fondatezza delle accuse.
Le recensioni in effetti furono pochissime e poco autorevoli. Rimane agli atti una di Pietro Citati, apparsa sul “Corriere della sera” il 16 giugno, il quale pur apprezzando il libro di Solženicyn ritenne di dover aggiungere queste parole delle quali non si avvertiva la necessità:
“Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce, credo che sia più proficuo dimenticare del tutto…”.
La “distrazione”, comunque, non bastava a chi ancora non si era reso conto della fine della “spinta propulsiva della rivoluzione”.
Occorreva dedicarsi alla denigrazione. E non si risparmiarono. Arcipelago Gulag venne “smontato” da Carlo Cassola sotto il profilo “artistico” in quanto il suo autore non valeva nulla su quel piano; Umberto Eco, sempre in prima fila accanto ai sostenitori delle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”, definì Solženicyn una sorta di Dostoevskij da strapazzo; Alberto Moravia sull’”Espresso” lo liquidò come un “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”.
Del linciaggio presero atto, insieme con pochissimi altri, per contrastarlo, lo slavista Vittorio Strada ed il grande giornalista Enzo Bettiza. Questi denunciò, senza mezzi termini, “la vergognosa offensiva di vasta parte della cultura italiana”.
Fu così che la sinistra intellettuale, al potere in Italia, quarant’anni fa diede il peggio di se stessa scagliandosi non contro la verità di Solženicyn, ma contro la verità tout court.
Il Pcus invitò i “partiti fratelli”, cioè quelli che finanziava, a seguire la “linea”. E il Pci, retto in quel momento da Enrico Berlinguer, non aveva né forza né voglia di opporsi. Così la “versione” di Napolitano sul caso Solženicyn divenne la versione dell’intero Partito e dell’ intellighenzia. Per lungo tempo. Un padre della Sinistra come Vittorio Foa, novantenne, ammise di non aver mai avuto il coraggio di leggere l’Arcipelago. Un mea culpa, tardivo, che in molti non hanno mai fatto.
Irina Alberti, a lungo sua amica e traduttrice, ricordava che in Italia su Solženicyn si riversarono valanghe di calunnie, nel tentativo di limitare la portata delle rivelazioni contenute in Arcipelago Gulag. La Alberti rivelò anche che quel mastodontico “memoriale” venne “scritto solo di notte, al chiaro di luna di una casupola abbandonata in riva al mare estone, d’inverno, senza mai accendere la stufa perché nessuno si accorgesse che c’era qualcuno in quel luogo considerato disabitato”.
Nel 1970 gli venne attribuito il Nobel per la letteratura che non poté ritirare. Era reduce dai campi di concentramento dove aveva visto in faccia il volto barbaro del comunismo, diventò il nemico principale del regime. Il 13 febbraio 1974, due mesi dopo l’uscita a Parigi di Arcipelago Gulag, venne deportato nella Ddr e privato della cittadinanza sovietica. In quello stesso mese scrisse il suo testo più significativo sotto il profilo politico: Vivere senza menzogna, l’atto d’accusa più violento contro il sovietismo. Dopo quasi due anni trascorsi in Svizzera, si trasferì negli Stati Uniti, nel Vermont, dove rimase fino al 1994 quando fece ritorno in Russia, finalmente libero, e vi morì, a quasi novant’anni, il 3 agosto 2008.