Da "Ucraina. Il genocidio dimenticato 1932-1933" di Ettore Cinnella. [Acquista su Amazon]
Introduzione: L’aggressione russa all’Ucraina ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi in occidente le vicende e il destino di una nazione della quale, anche dopo la proclamazione dell’indipendenza nel 1991, poco si parlava e ancor meno si sapeva. Non che oggi in Italia, nonostante la gravità di quanto sta accadendo, siano in molti a curarsi e ad inquietarsi per le sorti di un paese europeo più grande della Francia. Anzi, numerosi sono da noi i politici, sia di destra che di sinistra, e gli intellettuali pronti a difendere le ragioni dell’imperialismo moscovita; in ogni caso, non sono tantissimi coloro che hanno a cuore il destino di una terra invasa e smembrata, in tempo di pace, in spregio del diritto internazionale e della morale.
Mi è parso quindi un dovere civico far conoscere nei dettagli la pagina più fosca del comunismo sovietico, che ebbe effetti devastanti e indelebili sul popolo ucraino. Si tratta della collettivizzazione forzata delle campagne intorno alla quale, nonostante la mole di documenti oggi consultabili, aleggiano ancora versioni edulcorate o poco chiare. Che quella scelta di politica economico-sociale abbia avuto elevati costi umani, lo ammettono ormai quasi tutti; anche se certuni ancora sostengono che essa favorì il progresso economico del paese e trasformò i «rozzi» contadini sovietici in cittadini di uno Stato moderno. La verità è che, anzitutto, la collettivizzazione integrale si risolse, nel breve come nel lungo periodo, in una catastrofe economica di enormi proporzioni. Inoltre, assoggettando con la forza decine di milioni di contadini, essa gettò le basi di una società fondata sul ripristino dell’ordinamento servile, da tempo abolito nella Russia zarista. Si spiega così l’accanita resistenza di decine di milioni di agricoltori alla nascita di un sistema che, da un giorno all’altro, mirava a privarli di ogni iniziativa economica e a farli lavorare gratuitamente per lo Stato. La ferocissima guerra che ne scaturì sconvolse l’immenso territorio dell’URSS, lasciando sul terreno innumerevoli vittime: oltre alle centinaia di migliaia di famiglie deportate (di cui una parte perì in viaggio o nelle nuovi sedi), si ebbero infinite rivolte represse nel sangue e vennero eseguite moltissime sentenze capitali. Quella guerra produsse ingenti perdite materiali, la maggiore delle quali consisté nella distruzione del patrimonio zootecnico del paese. Ma tali eventi, occorsi dal 1929 alla fine del 1931, non furono che il preludio della tragedia che si compì nel giro di pochi mesi, dall’autunno 1932 alla primavera dell’anno successivo. Non riuscendo a domare i ribelli contadini con i più crudi strumenti repressivi, alternati a fasi di relativa tregua, Stalin si risolse ad adottare una misura estrema mai prima di lui concepita e attuata su scala così vasta: lo sterminio per fame di una parte della popolazione rurale. Essendo rivolto non agli accademici, bensì a chi vuol conoscere una delle massime tragedie del mondo contemporaneo, il mio libro ha un apparato bibliografico ridotto. Per non appesantire il testo, ho menzionato solo alcuni degli studi più importanti, che era doveroso ricordare. In compenso, sono state sempre indicate le fonti dalle quali ho attinto le notizie e tratto le citazioni, in primo luogo i rapporti segreti della polizia politica e del partito comunista. Ho descritto i fatti più crudi ricorrendo, oltre che alle rievocazioni dei testimoni e delle vittime, ai documenti di parte comunista i quali sono, da questo punto di vista, inoppugnabili; e ho cercato di decifrare i reali intenti di Stalin e dei massimi gerarchi bolscevichi attraverso le lettere e i messaggi segreti (quando ciò era consentito dalla documentazione oggi consultabile). Mi sono sforzato di ricostruire le varie fasi della collettivizzazione e della grande fame accennando anche al più ampio contesto interno e internazionale, che getta luce sulla crisi di quegli anni: dalle acute tensioni in seno al partito comunista all’atteggiamento dell’opinione pubblica e dei governi occidentali verso le vicende sovietiche. Si vedrà così perché Stalin avesse bisogno di tacitare i suoi avversari interni con uno spettacolare trionfo e come venisse costruita, all’interno e all’estero, la congiura del silenzio ‒ durata così a lungo ‒ sugli orrori che sconvolgevano l’URSS. Degli oltre sei milioni di vittime della grande carestia dei primi anni Trenta, quasi due terzi toccarono all’Ucraina. Se lo sterminio per fame di un così elevato numero di agricoltori autorizza a parlare di genocidio sociale perpetrato dal regime comunista, il fatto che il popolo ucraino ne abbia sofferto in misura tanto grande merita una speciale attenzione e riflessione. Beninteso, anche altri popoli furono orribilmente straziati in quegli anni dalla forsennata politica agraria di Stalin. Ho ricordato nel libro la tragedia degli allevatori nomadi del Kazachistan, un terzo dei quali perì in seguito al tentativo di renderli sedentari e assoggettarli allo Stato comunista. Anche la memoria storica di quel popolo esige di essere onorata; e oggi possiamo farlo, grazie ai numerosi studi che sono stati dedicati alla grande carestia nelle steppe asiatiche. La morte per inedia imposta agli agricoltori ucraini (il cosiddetto holodomor), pertanto, può esser compresa e valutata solo se comparata alle altre grandi tragedie collettive, provocate dal comunismo sovietico. Tale convinzione spiega il largo spazio che questo libro dedica alle vicende generali, nonché ad alcuni aspetti specifici, della collettivizzazione nell’intero territorio dell’URSS. Ma i fatti ucraini ebbero anche tratti peculiari, che meritano una speciale disamina e sulla cui valutazione sono sorte infinite discordie. Ancora prima che la loro terra conquistasse l’indipendenza, gli ucraini all’estero equipararono ad un vero e proprio genocidio nazionale quello che oggi chiamiamo holodomor (il termine non esisteva ancora). Dopo il 1991, poi, gli storici e l’opinione pubblica del nuovo Stato indipendente hanno accolto senza tentennamenti questa tesi, chiamando talvolta il martirio subìto dal loro popolo all’inizio degli anni Trenta l’«olocausto ucraino». Quest’ultimo termine a me sembra improprio e andrebbe riservato solo allo sterminio degli ebrei per mano dei carnefici nazisti. È invece lecito, e perfino doveroso, definire genocidio sociale la carestia terroristica che, nel 1932-1933, rubò la vita ad alcuni milioni ‒ da tre a quattro ‒ di agricoltori ucraini. Del resto, sono molti gli storici, anche russi, che concordano nel considerare un genocidio sociale la decimazione della popolazione contadina, anche ucraina, decisa da Stalin per collettivizzare le campagne. Quel che essi negano risolutamente è che il caso ucraino sia stato diverso da tutti gli altri, che cioè gli agricoltori di quella terra siano stati crudelmente puniti non solo perché contadini, ma anche perché appartenenti ad una determinata comunità nazionale. A questo punto sorge l’interrogativo: gli abitanti delle campagne ucraine furono decimati in quanto contadini o subirono quel tremendo castigo anche per altre ragioni? Rispondere alla prima domanda in modo affermativo, come si può e si deve, non chiude la questione e non appaga chi vuol indagare su quell’orribile misfatto storico. Anzitutto, assieme alla guerra senza quartiere contro i contadini, in quegli stessi anni Stalin sferrò un furibondo attacco all’intellighenzia ucraina, cioè ai custodi della memoria storica della nazione, e represse finanche il locale partito comunista, reo di non obbedire compattamente agli ordini di Mosca. Come interpretare tutto ciò se non come segni della volontà di annullare gli spazi di autonomia, di cui l’Ucraina ancora godeva? D’altronde, proprio negli anni della collettivizzazione la coscienza patriottica dei contadini ucraini, qualunque essa fosse stata prima, fece passi da gigante individuando nel giogo comunista e moscovita la vera causa dei mali della loro terra. E quando giunse la grande fame, quella consapevolezza divenne sempre più chiara e robusta, tanto da far sperare ai contadini l’arrivo di un esercito straniero che li liberasse dalla tirannia di Mosca. La coscienza nazionale dell’Ucraina contemporanea prese corpo per la prima volta dopo la rivoluzione bolscevica, quando il paese conobbe per pochi anni l’esperienza dell’indipendenza. La difficile via dell’autonomia nell’ambito dell’URSS fu percorsa negli anni ’20, ma si interruppe bruscamente in seguito alla svolta politica centralizzatrice decisa da Stalin. Il calvario del holodomor creò tra Ucraina e Russia un baratro, che non si è mai più colmato. Malgrado le ingenuità e le intemperanze dell’odierno nazionalismo ucraino, non si può dar torto a quanti pensano e dicono che, se non avesse fatto parte dell’URSS, l’Ucraina non avrebbe conosciuto un’esperienza annichilente come lo sterminio per fame di milioni di pacifici e laboriosi agricoltori. La tragedia del holodomor non è soltanto una fosca pagina di storia, appartenente al passato e ormai archiviata. Essendo assurta a doloroso simbolo del riscatto nazionale dell’Ucraina, essa dev’esser conosciuta anche da chi vuol capir qualcosa dei sentimenti più profondi di quel popolo. Anziché chiedere perdono e lenire così le antiche ferite, la Russia con l’attuale aggressione contribuisce a riaprirle, facendole bruciare e sanguinare ancora una volta. Ad un popolo, ieri orrendamente sfregiato ed oggi nuovamente umiliato, non resta che sperare nell’integrazione politica, economica e militare in un mondo meno barbarico di quello a cui il fato storico l’ha tenuto troppo a lungo avvinto. Ringraziamenti Federigo Argentieri ha avuto in Italia il merito di prodigarsi, più di tutti, per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulla grande carestia nell’URSS e sul genocidio ucraino. Io vorrei qui esprimergli la più profonda riconoscenza per l’aiuto che mi ha fornito nella preparazione di questo libro, che deve molto al suo generoso impegno nel procurarmi alcuni materiali di ardua reperibilità. Un pensiero grato va ai colleghi del Dipartimento di Storia dell’Università di Pisa, che non mi hanno mai fatto mancare la loro stima e fiducia durante gli anni del mio insegnamento. Come sempre, il mio grazie va a mia moglie Lucia, che mi è stata sempre a fianco in questi anni, senza mai smettere di sorridere.