Menzogna, sostiene Sensini: nella Russia prerivoluzionaria la «società civile esisteva e stava strutturandosi anche grazie a una libertà di stampa che si estendeva ogni giorno di più». A partire dal 1912, Lenin poté far uscire per anni, legalmente e senza che nessuno ne minacciasse la chiusura, il suo giornale «Pravda», sul quale tra il maggio del ' 12 e il luglio del ' 14 apparvero ben trecento suoi articoli. Il numero delle famiglie contadine titolari di proprietà passò da due milioni e ottocentomila (pari al 33 per cento dei dodici milioni di famiglie) nel 1905 a sette milioni e trecentomila nel 1915 (pari al 56 per cento delle famiglie che nel frattempo erano cresciute a tredici milioni) con un aumento percentuale del 260 per cento in appena dieci anni. Fu lo stesso Lenin che, dopo la rivoluzione d' Ottobre, trasformò quel mondo in un incubo; Stalin fece il resto. Nel saggio introduttivo al libro da lui stesso curato, L'età del comunismo sovietico (anch'esso pubblicato da Jaca Book), Pier Paolo Poggio si sofferma sulla circostanza che «le interpretazioni sulla rivoluzione e l'Urss debbono fare i conti con una formidabile costruzione mitologica, senza pari nel corso del Novecento, affermatasi in Occidente e nel mondo, in singolare contrasto con la realtà». L' azione di Lenin e quella di Stalin vengono viste, e giustificate, quali «vettori della modernizzazione e industrializzazione, sia pure a costi spaventosamente alti». Un giudizio che secondo Poggio è da tempo «improponibile» e definitivamente «smentito dall' abbondante storiografia ormai a disposizione». Ma che resiste, osserva ancora Poggio, in virtù della «forza mitopoietica della rivoluzione russa a fronte delle continue smentite che essa ricevette da subito e poi nel corso di tutta la storia dell' Urss».
È venuto invece il momento di chiamare le cose con il loro nome: dispotismo, tirannia, sterminio, genocidio, crimini contro l' umanità. Fin dai primi passi della rivoluzione. Se oggi questi termini possono essere usati anche in Italia, lo si deve in particolare agli approfonditi studi di Andrea Graziosi, il quale, nel fondamentale L'Urss di Lenin e Stalin (Il Mulino), così come nel saggio Stalin e il comunismo comparso nel libro I volti del potere (Laterza), ha messo in evidenza l' assoluta continuità tra i due «tiranni» che guidarono l'Unione Sovietica tra il 1917 e il 1953. «Stalin apprese da Lenin la gestione spietata del potere, l'uso elastico dei precetti ideologici a seconda delle circostanze», ha scritto. Leninismo e stalinismo possono essere definiti «tirannie»? Sì, risponde Graziosi: ancorché diverse («perché diversi furono i problemi che Lenin e Stalin furono chiamati ad affrontare e diversa era la personalità e la cultura del tiranno»), le si può definire in tutto e per tutto tirannie. Il culto della violenza fu tale fin dall' inizio. Già nel 1906 Lenin scriveva che per la presa del potere si doveva procedere a una guerra rivoluzionaria «disperata, sanguinosa, di sterminio».
Ma quel che poi capitò fu in più occasioni dettato dalle circostanze. Alla fine del 1916, pochi mesi prima della rivoluzione d' Ottobre, Lenin era sostanzialmente un isolato. I contatti con il partito in Russia glieli teneva la moglie, Nadezda Krupskaja, nella cui agenda si trovavano solo ventisei indirizzi, sedici dei quali appartenevano a militanti non più attivi e, dei restanti dieci, sette erano a Pietrogrado, a Mosca o al confino e tre nel restante impero russo. Le idee in principio erano poco chiare. Subito dopo la rivoluzione, alla fine del 1917, Lenin confuse l' arretramento in cui versava il Paese a causa della guerra con una nuova fase economica che prefigurava il futuro, si compiacque del fatto che la necessità economica avesse «condotto la Russia ad uno scambio in natura» e sostenne che «in questo si trova il germe dell' economia socialista». I problemi si fecero presto assai complicati. L' uso della forza servì ad affrontarli (e, per così dire, risolverli) in tempi rapidi.
Riprendendo una citazione di Marx su Pietro il Grande, Lenin nel 1918 invitò i bolscevichi a impiegare contro gli avversari della rivoluzione «metodi barbari». Sempre contro quei nemici furono mossi reparti detti «di sterminio», esortati a reprimere «senza pietà». Accanto alle uccisioni, scrive Graziosi, «vi fu il ricorso sistematico alla presa di ostaggi, inclusi donne e bambini, e alla loro esecuzione; alla deportazione, prima di elementi ostili come i proprietari terrieri e i loro famigliari, poi di famiglie contadine e anche di interi villaggi». Nel maggio del 1918, c'è il primo spostamento forzato di popolazione dell' era sovietica, a danno degli abitanti di quattro villaggi cosacchi.
Su ordine di Lenin, prosegue Graziosi, vi furono in quel periodo «impiccagioni e torture di massa», esecuzioni all' impronta per punire l' uccisione di un comunista (la cui vita «valeva» da dodici a cinquanta vite contadine), per castigare i villaggi «covi» delle rivolte o del «banditismo» (nei decreti si giunse a minacciare la fucilazione di tutti i maschi tra i diciotto e i cinquant' anni), bombardamenti aerei e distruzione non solo di questi covi, ma anche di interi villaggi colpevoli di essersi dedicati al «libero commercio». Questa offensiva viene definita da un dirigente, in una lettera dell' epoca al Comitato centrale, «una politica di sterminio di massa senza alcuna discriminazione».
Le prime repressioni «preventivo-categoriali», come la «decosacchizzazione» nel 1919, avvengono ai tempi di Lenin, e pure l'uso della carestia del 1921-22 per liquidare i nemici, accompagnata dalla deportazione degli intellettuali e dalla repressione dei religiosi, «insegnò qualcosa a Stalin». Anche se, avverte lo storico, «il salto di qualità e di scala da lui (Stalin) operato dopo il 1928 è innegabile».
Appresa la lezione applicata da Lenin ai cosacchi, Stalin, negli anni Trenta, fece deportare i cittadini sovietici di origine coreana, «colpevoli» di vivere ai confini con la Manciuria, ciò che - secondo lui - avrebbe favorito l'infiltrazione di spie giapponesi. Duecentomila di questi coreani furono spostati in Asia centrale e trentamila morirono durante il viaggio, «pagando un prezzo altissimo alla metodica, e lucidamente paranoica, sospettosità del despota». Ma torniamo agli anni che precedettero l'ascesa di Stalin. Quando, ai tempi della guerra civile, il generale Judenic marciò su Pietrogrado, Lenin scrisse che era «diabolicamente importante massacrarlo». Nell' agosto del 1921, per liquidare la rivolta di Tambov, il generale bolscevico Tukhacevskij ricorse a gas asfissianti per eliminare i ribelli rifugiati nei boschi. Sempre a Tambov, Antonov-Ovseenko, l'eroe dell'Ottobre, fece fucilare decine di ostaggi nelle piazze principali dei paesi per convincere gli abitanti a denunciare i rivoltosi e le loro famiglie.
Nella fase finale della guerra civile, scrive Graziosi, nacque un «culto della violenza» che trovò seguaci in rappresentanti locali del regime leninista, i quali sostenevano che era «giunta l' ora di abbandonare le pretese umanitarie» ed esortavano all' applicazione di «misure durissime, inumane». E, come traccia del culto della violenza diffuso tra i bolscevichi, Graziosi cita un passo del romanzo L'Armata a cavallo di Isaac Babel' , in cui vi è la descrizione compiaciuta di come si impara a schiacciare sotto i piedi con gusto la testa di un'oca. In Crimea, ultimo baluardo dei militari «bianchi» avversari della rivoluzione, gli uomini di Lenin chiedono ai giovani ufficiali di presentarsi, promettendo loro la libertà in cambio di una semplice registrazione, dopodiché li uccidono uno ad uno con i metodi descritti ne La scheggia di Vladimir Jakovlevic Zazubrin: esecuzioni individuali di centinaia di persone compiute da boia professionisti. Vengono così massacrate circa dodicimila persone. Lo stesso sistema che sarà poi adottato da Stalin nel 1937-38 e ancora, dopo la spartizione della Polonia, con gli ufficiali polacchi a Katyn. Del resto è ormai accertato che i Gulag nacquero e divennero subito operativi già ai tempi di Lenin. Come si racconta, con un' ampia documentazione, nell' interessante L' epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki (Morcelliana) di Maurizio Campa.