Quando uscì nel 1967 in prima mondiale l’edizione italiana del libro di memorie di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, l’effetto fu per certi aspetti sconvolgente. All’insaputa dell’autrice, si era riusciti a far pervenire in occidente un documento del samizdat di grandissimo spessore storico, umano e letterario che Marija Olsuf’eva seppe volgere in densa prosa italiana. Scrisse poi l’autrice: «io – che per lunghi anni avevo abitato le tane ghiacciate dei deportati … avevo la fortuna di essere pubblicata in una città che rispondeva al suono melodioso di Milano».
E oggi giunge a noi finalmente anche la redazione completa dell’opera, oggetto di sofferti rifacimenti e integrazioni protrattisi fin proprio agli ultimi giorni di vita dell’autrice, scomparsa nel 1977 (Dalai Editore, traduzione di Duccio Ferri, pp. 703, euro 19,90). Madre dello scrittore Vasilij Aksenov, autore del celebre Biglietto stellato, la Ginzburg è personalità complessa, di autentico talento letterario e di profonda sensibilità umana, e il libro oggi sugli scaffali delle librerie italiane nella sua interezza si presenta come un documento insostituibile per chi voglia avvicinarsi alla tragedia delle purghe staliniane e del Gulag e, nel contempo, come un capolavoro letterario, nel quale le terribili esperienze biografiche e psicologiche dell’autrice in tutta la loro cruda autenticità e immediatezza sono nel contempo presentate con maestria letteraria e in una ardita tessitura di reminiscenze. Oltre che nel suo valore di documento, la grandezza di questo libro sta proprio in questa sua dimensione che si inserisce nella migliore tradizione della grande letteratura russa.
E d’altra parte la Ginzburg, entusiastica attivista del movimento operaio, membro del partito a Kazan’, collaboratrice del giornale «Krasnaja Tatarija», era donna di fine formazione culturale che seppe vivere e sopportare le tragiche prove della sua vita nel conforto e nel sostegno morale della poesia, tanto da attribuire alla propria esperienza un significato anche artistico. Celebre è la scena della lettura a memoria di gran parte dell’Evgenij Onegin che la Ginzburg sostiene in un affollato carro merci del treno che la sta portando alla Kolyma per dimostrare ai carcerieri della scorta e al loro capo Solovej che nessuna delle detenute cela con sé un libro (cosa vietata dal regolamento) e nel contempo che nessuno può imprigionare il pensiero, la memoria, l’arte. Episodio che ci ricorda una celebre lirica di Mandel’stam dedicata al fiume Kama. Nelle tre parti dell’opera la Ginzburg distribuisce l’esperienza dell’arresto (per aver conosciuto lo storico Nikolaj El’vov accusato di trotzkismo) e della prigione (dall’isolamento della detenzione nel corso dell’inchiesta, tra Kazan’ e Mosca, dalla «torre di Pugacev» alle angustie del carcere di Jaroslavl’, dove «guardare apertamente il cielo era proibito»), poi dopo la caduta del «nano-mostro» Ezov, il trasferimento attraverso i lager di transito, gli anni della prigionia siberiana, nella Kolyma, a Magadan e poi nella tajga, l’estremo nord a El’gen (il toponimo in jakuto significa «morto»).
Seguono gli anni successivi alla liberazione, ma sempre in stato di esilio a Magadan, dove la Ginzburg ritrova la compagna di cella Julia, il ricongiungimento con il figlio Vasilij (l’altro figlio perì nella Leningrado assediata), un improvviso nuovo, terribile arresto nel 1949, tra altre peripezie e incontri fino alla riabilitazione. Vengono poi anni appesantiti dal fardello della memoria e l’ansia per una rilettura critica dell’intera esperienza dello stalinismo. Appartenendo all’élite del partito, la Ginzburg porta dati e giudizi importanti per la ricostruzione della storia del Pcus e del destino di molti dei suoi dirigenti di spicco e riflette la psicologia di chi credeva ciecamente nel partito, fino a dubitare, almeno nei primi tempi, che Stalin sapesse cosa davvero succedeva nel paese. Frequenti sono i paralleli con la Germania nazista anche attraverso le testimonianze delle prigioniere tedesche del Komintern, che avevano conosciuto le celle della Gestapo. Allo stesso tempo, gli incontri, le intense amicizie di prigionia e lager, il contatto con una misera umanità degradata oltre alla soglia della sopravvivenza tra slanci eroici e azioni ignominiose, permettono all’autrice di offrire un quadro d’insieme, un affresco sociale, psicologico e spirituale, che acquista ora toni epici, ora lirici, ora di fredda osservazione naturalistica. A colpire il lettore è la lunga schiera di personaggi, vittime e aguzzini (spesso come nel caso del maggiore El’sin presentati in entrambi i ruoli), la cui vita è come sospesa tra il ricordo di ciò che pare irrimediabilmente perduto e un futuro segnato da sconforto e abbandono o irreale e crudele incredulità. Oggi, proprio come per la Shoah, sembra quasi assurdo che tutto ciò sia potuto avvenire. Ed egualmente banale è l’incarnazione del male nell’inesorabile funzionamento burocratico della macchina repressiva, come nella scritta sugli incartamenti dei condannati: «conservare in eterno». Ecco così tracciati con essenzialità pittorica e precisione psicologica le compagne di cella, dalle vecchie social-rivoluzionarie, che avevano conosciuto le galere zariste, a Ljama, giovane rimpatriata dalla comunità di émigré in Cina, alla giovanissima Nina Lugovskaja (le sue memorie furono edite anni addietro anche in italiano), dai cinici e violenti inquisitori, tra cui lo spietato Vevers, ai tanti secondini, sorveglianti e guardie della scorta, dai medici e infermieri dei lager (splendido il ritratto di Anton Walter, il medico tedesco cui la Ginzburg si legherà affettivamente), ai tanti criminali comuni, dai dirigenti in semilibertà delle varie pesantissime forme di lavoro coatto ai rappresentanti delle numerose nazionalità del crogiuolo sovietico. E infine il rattristito mondo animale e la severa natura siberiana. Nell’originale il testo è una fonte ricchissima per la ricostruzione degli aspetti linguistici del mondo carcerario e concentrazionario sovietico (evidente anche in alcuni dei titoli attribuiti ai capitoli che riportano tutta la specificità gergale del mondo carcerario) e, lo voglio sottolineare, il traduttore con lodevole sforzo (e qualche inesattezza) spiega nelle numerose note anche molti dei termini e dei realia relativi alla vita della prigione sovietica. Egli rileva inoltre, nei limiti del necessario, le citazioni e i rimandi, anche se, ovviamente, molto rimane nascosto. La profonda struttura intertestuale del testo necessiterebbe di ben altri approfondimenti: riporto, a mo’ d’esempio, il passo «le pesanti catene si spezzeranno, le galere crolleranno», citazione di una celebre lirica di Puskin dedicata ai decabristi, e il riferimento al «bey algerino» che è un evidente rimando alle Memorie di un pazzo di Gogol’. Questo è comunque un libro di tale ricchezza culturale e di tale spessore umano che malgrado la mole non concede al lettore un attimo di rilassamento e distacco.
La scrittura è coinvolgente, senza cadute o prolissità, e rende il lettore intensamente partecipe degli stati d’animo e delle esperienze degli eroi delle tante vicende e storie del lager. Nota quasi con stupore la Ginzburg: «Sì, proprio qui in prigionia ho incontrato il sentimento del congioire, molto più raro e difficile del compatire…». La lettura del Viaggio nella vertigine provoca proprio questa sensazione di gioia stupita e primigenia: la gioia che questo messaggio sia giunto a noi in tutta la sua pienezza e vitalità!
Stefano Garzonio, “Il Manifesto”, 1 maggio 2011)
Evgenija Solomonovna Ginzburg Nasce a Mosca nel 1904 da una famiglia benestante, che nel 1909 si trasferisce a Kazan’, dove Evgenija si laurea all’istituto psicopedagogico con la specializzazione in storia. Nel 1932 si iscrive al partito, lavora all’università come ricercatrice e scrive nella redazione locale del giornale Tatarija Rossa. Sposatasi con Pavel Aksënov, membro della segreteria del Comitato Centrale del partito della Tatarija, entra a far parte della prima generazione dell’intelligencija sovietica. Nei primi anni Trenta le élites del partito godono di molti benefici, ma a partire dal 1° dicembre 1934 la loro sorte cambierà per sempre: l’assassinio di Sergej Kirov (uno dei massimi dirigenti del partito) diventa l’occasione cercata da Stalin per dar vita al “grande terrore” e reprimere ogni tipo di opposizione. All’omicidio di Kirov fanno seguito i primi arresti di comunisti considerati fino allora di provata fede, tra cui il professor El’vov, collega della Ginzburg all’istituto pedagogico. Accusata di non aver denunciato l’amico “trockista”, Evgenija rifiuta tassativamente di ammettere una colpa inesistente e viene quindi espulsa dal partito. Il 15 febbraio 1937 è arrestata a sua volta con l’accusa di aver preso parte a un’organizzazione terroristica all’interno della redazione del Tatarija Rossa e di essere trockista; gli uomini dell’NKVD cercano poi di costringere il marito a ripudiarla e, di fronte a un suo rifiuto, lo arrestano pochi mesi dopo insieme a Vasilij, il figlioletto di cinque anni, che viene trasferito in orfanotrofio e potrà rivedere la madre solo molti anni dopo.Per la Ginzburg inizia la terribile fase dell’istruttoria: reclusa in una cella sotterranea del carcere di Kazan’ rifiuta di confessarsi colpevole e di fornire prove false contro degli innocenti per salvarsi. Viene allora sottoposta a un interrogatorio ininterrotto di sette giorni consecutivi senza mangiare né dormire, e quando risponde ai suoi inquirenti che non deporrà il falso perché non sarebbe onesto, il maggiore El’šin le ribatte che nell’etica marxista-leninista: “è onesto ciò che è utile al partito e allo Stato”. Di fronte alla strenua resistenza della Ginzburg a prestarsi alla delazione, i carcerieri ricorrono alla tattica consolidata di raccogliere testimonianze false contro di lei, ricattando alcuni suoi amici, che cedono per paura di finire nello stesso “tritacarne”. Dopo un processo durato sette minuti, viene condannata a dieci anni di reclusione e isolamento. Trasferita a Mosca nel carcere di Butyrki, sotto shock per essere scampata alla fucilazione prevista per i reati di cui è accusata, Evgenija stringe amicizia con le persone più diverse, tutte detenute senza ragione, e sperimenta un livello più profondo di relazione tra gli esseri umani, che va oltre la semplice coscienza di partito e coinvolge sentimenti e valori universali; scossa dall’incontro con la tortura e il dolore prende consapevolezza del tremendo conflitto interiore che le detenute comuniste debbono affrontare: ciò che grida la coscienza individuale e quello che la fedeltà al partito impone sono divenuti termini antitetici e inconciliabili. Dopo due anni trascorsi in cella di isolamento a Jaroslavl’, in uno spazio di cinque passi per tre, con quindici minuti d’aria al giorno, la Ginzburg viene trasferita ai campi di lavoro correzionale. Iniziano gli anni terribili della Kolyma, dove viene assegnata a diverse mansioni, con alterne fortune. La pesantezza del lavoro, la crudeltà dei capi del lager, la violenza dei delinquenti comuni, ridurranno più volte Evgenija in fin di vita, ma ogni volta, con l’aiuto di circostanze favorevoli e inaspettate, la sua tempra e il suo spirito avranno il sopravvento, fino a farle commentare: “a prima vista sembrava accidentale, ma in effetti era una manifestazione normale di quel Bene che, nonostante tutto, regna sul mondo.” Scontata la condanna, nel 1947 la Ginzburg viene rilasciata e dopo la morte di Stalin ottiene la riabilitazione per “mancanza di reato”; per sopravvivere redige articoli e saggi per la stampa periodica, mentre di notte scrive il romanzo che la renderà celebre, Viaggio nella vertigine, che termina nel 1962 e che presto si diffonde con grande successo attraverso la stampa clandestina, riscuotendo l’apprezzamento di giovani lettori e di noti scrittori. Nel 1966 si trasferisce a Mosca, dove incontra Solženicyn, che in Arcipelago GULag farà più volte riferimento al romanzo nel descrivere la mentalità della “leva del ‘37”, i detenuti provenienti dal partito. Il manoscritto, testimonianza della brutale esperienza del GULag, viene rimaneggiato più volte da Evgenija, che paventa la censura e soprattutto teme il pericolo, sempre in agguato, dell’arresto e di una nuova persecuzione, fino a decidere di liberarsi della prima stesura, che lei stessa brucerà. Nel frattempo il libro, a sua insaputa, viene pubblicato in Italia da Mondadori nel 1967 e poi in tutta Europa. Quando il KGB riesce a impossessarsi dell’archivio di Solženicyn e il ministro della sicurezza definisce diffamatoria l’opera della Ginzburg, in Evgenija si risvegliano le vecchie paure. È lei stessa ad ammetterlo in una pagina del romanzo: "Del resto anch’io, a volte, ripiombo nella paura quando suonano o bussano di notte, oppure quando sento girare la chiave dall’esterno…". Il suo unico viaggio in Occidente avviene pochi mesi prima della morte. Accompagnata dal figlio Vasilij si reca in Francia e in Germania, dove incontra Heinrich Boll. Rientrata a Mosca, malata di tumore, muore il 25 maggio 1977 e viene sepolta nel cimitero di Kuzminki accanto al secondo marito Anton Walter, medico ebreo anch'egli detenuto, incontrato nel lager e suo fedele compagno durante e dopo la detenzione.
Nell’ambiente della dissidenza sovietica, in particolare degli scrittori, il lavoro della Ginzburg è stato accolto in modo controverso e una parte dei grandi autori della letteratura del dissenso ha espresso su di lei giudizi a volte ingenerosi. Varlam Šalamov accusò Viaggio nella vertigine di “romanticismo a buon mercato e di smaccato sentimentalismo”, mentre il direttore della rivista “Novyj mir” Tvardovskij disse che la Ginzburg “si era accorta che c’era qualcosa che non andava solo quando hanno cominciato a mettere in galera i comunisti. Quando invece sterminavano i contadini russi considerava il fatto del tutto naturale!”. La stessa Nadežda Mandel’stam avrebbe detto: “Evgenija Semënovna non si abbassa, si disonora.”
Rimane inalterato, in ogni caso, il valore della lunga resistenza della Ginzburg nell’inferno dello stalinismo, la sua coraggiosa opposizione alla logica distruttrice del totalitarismo nei confronti della dignità umana, il suo sforzo per liberarsi dalla gabbia ideologica che aveva condizionato le scelte della sua giovinezza e per rielaborare la propria esperienza nella ricerca della verità; rimane, con Viaggio nella vertigine, la testimonianza drammaticamente straordinaria di una protagonista del ‘900.
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