La giornata del Ricordo torna ogni anno in punta di piedi a ricordarci l’altra metà rimossa della storia, dell’orrore e della pietà. Me ne sono occupato altre volte, sottolineando le ragioni per cui ricordare le foibe e l’esodo: perché è il capitolo italiano del comunismo mondiale, perché è l’ultima commemorazione dedicata all’amor patrio, perché descrive le sofferenze di un popolo, perché ci ricorda che gli orrori non esistono da una parte sola. E noi dobbiamo prendere sulle nostre spalle la storia universale della pietà, a partire da coloro che ci sono più vicini. Ma questo 10 febbraio vorrei raccontarvi una storia, anzi due, sull’orlo delle foibe, che ebbero però un lieto fine.
La prima è la testimonianza di un uomo, all’epoca soldato e ventenne, che gettato nelle foibe insieme ad altri, riuscì a risalire dalla foiba e rivedere la luce del mattino. Il suo nome è Graziano Udovisi e fu considerato l’ultimo testimone. Si era presentato con un amico ufficiale al comando a Pola, e trovò un maggiore italiano che era passato con i suoi commilitoni dalla parte slava. Che li ascoltò, poi chiamò alcuni jugoslavi, che li ammanettarono e li fecero prigionieri, con le mani dietro la schiena con il fil di ferro. Furono poi deportati in un campo di concentramento, a Dignano. Li facevano camminare di notte. Una volta, i prigionieri vennero messi in fila indiana, uniti da un lungo filo di ferro, che partiva dal braccio sinistro di Graziano e furono portati davanti ad una foiba, rischiarata dalla luna. Un’altra vicina era invece completamente oscura. “È la mia ora. La luna mi è di fronte, bella grande lucente. Immediatamente mi sale una preghiera alla Madonna” e ai suoi cari. I partigiani slavi spararono alla cieca nel gruppo che cadde nel crepaccio, trascinato da colui che è caduto era prima, a cui avevano legato un grande masso. Quindici, venti metri, un volo senza fine. Poi lanciano pure delle bombe a mano. Graziano invece precipita nell’acqua, cerca di liberarsi dal fil di ferro, tiene stretto al cuore il suo amico che ha salvato prendendolo per i capelli. E alla fine riesce a trovare un anfratto in cui restare quella terribile notte di luna piena e di umanità spettrale. Poi con le ore percepiscono che sono salvi, i partigiani slavi di Tito sono andati via, riescono a mettersi in salvo, faticosamente risalendo dal fondo della foiba. Di quella storia che non aveva voglia di raccontare perché doleva al suo cuore, ne raccontò prima in una testimonianza raccolta da Giulio Bedeschi nel famoso libro Fronte Italiano: c’ero anch’io. E poi in un suo libretto uscito alcuni anni fa, Foibe. L’ultimo testimone (ed. Imprimatur). È una storia dolorosa ma a lieto fine. La bellezza del mattino dopo il tunnel cieco della morte, è un filo di speranza che si accende nel pieno di una tragedia collettiva, corale, di popolo.
Anni fa raccontai la storia vera, di una ragazza istriana, Irma. Chiese d’incontrarmi la mattina per sfuggire al controllo di figli e nipoti. Ci incontrammo una mattina a Roma in piazza san Silvestro e tradiva una cordiale emozione; per farsi riconoscere stringeva un mio articolo tra le mani. Suo marito, istriano, era morto combattendo in Africa, lasciandola vedova precoce con un bambino. In sua memoria, un nipote – il grande Uto Ughi – fu chiamato col suo nome. Nel ’45 vennero a prenderla da casa i partigiani comunisti, con l’accusa di aver rifiutato di falsificare carte d’identità e carte annonarie dei gappisti. Non si era rifiutata per ragioni politiche, mi dice fissandomi con i suoi occhi di cielo, ma perché era stata educata a rispettare la legge. Quando i partigiani se la portarono via, finse allegria per non impressionare il suo bambino che aveva poco più di otto anni. Fu chiusa in una casa insieme a sua sorella e ad altre ragazze, accusate di frequentare alcuni soldati repubblichini. Sa, erano bei giovanotti in divisa, mi sussurra, che c’entra il fascismo. Al piano di sotto erano invece detenuti i ragazzi. La sera sentiva gridare per le torture, mi dice mentre le sue mani tremano e il suo cappuccino deborda dalla tazza. Anche le sue compagne di stanza subivano sevizie: bruciavano loro i capezzoli con la candela e altro… In quei giorni arrestarono pure suo padre e avevano deciso di giustiziarlo: sa, era un imprenditore. Il suo bambino in bicicletta portava da mangiare a sua madre, a sua zia, a suo nonno in prigione. Neanche nove anni e una famiglia a carico…Ma a lei non fu torto un capello e a suo padre fu risparmiata la vita. Andò bene perché il capo dei partigiani si era innamorato di lei. “Quella volta ero carina, sa?”. Mi colpisce l’espressione che usa e lo sguardo improvviso di giovinezza che l’accompagna. Quella volta, come se parlasse di un tempo mitico, di un’altra esistenza, o di un interminabile giorno sottratto alla furia dei giorni. E si definisce carina, non bella, con una smorfia di pudore e vanità. Quella volta ero carina, come a voler limitare la bellezza solo a un evento. Amoreggiando con lui, salvò la vita a suo padre e a se stessa: le altre ragazze infatti non tornarono a casa. Mi dà una copia dell’ordine di scarcerazione, firmato con la stella a cinque punte, uno slogan e l’autografo del comandante, il suo moroso. Con l’epurazione persero tutto, la loro casa, la loro terra. Lasciarono il loro paese. Anni dopo tornarono nella loro terra e la trovarono abitata dagli slavi. Avevano costruito nel loro giardino otto palazzine ma avevano lasciato alcuni alberi. C’era ancora un albero di cachi che avevano piantato lei e sua sorella, da ragazze. Lei cercò di cogliere un pomo dall’albero. Fu scoperta e allontanata con durezza dai nuovi proprietari. A volte si diventa ladri in casa propria per amore del tempo perduto. Il suo racconto finisce col suo cappuccino. Restano di entrambi le ultime tracce di schiuma sui bordi.
Non aveva nessuna grande storia da rivelare né documenti. Voleva solo raccontare la sua vita, il travaglio e l’esodo, l’albero del suo paradiso perduto. Voleva lasciare a qualcuno una traccia discreta dei suoi giorni remoti, prima che venga la notte. Non serbava odio ma paura. È inutile piangere sul latte versato, sembrava dire davanti alla sua tazza galleggiante nel piattino; prevaleva la tenerezza e il desiderio di confidare a uno sconosciuto il sapore dei suoi vent’anni.
Marcello Veneziani, La Verità (10 febbraio 2022)