Il simbolo di sfida del movimento operaio e della Resistenza è morto. Solo la bolsa retorica nostrana la fa rivivere di tanto in tanto. “Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi: tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”: ma i poveri di oggi non sanno che farsene del pezzo di stoffa che tanto emozionava Pasolini, non lo conoscono, non lo sventolano. In cuor loro hanno capito che il simbolo è morto.
I partigiani del 1945 sono stati gli ultimi a usarlo nella sua accezione essenziale, colore vivo e tragicamente bello in sé, quando non ha fregi né scritte: quella issata sul tetto del Reichstag che pure chiude simbolicamente la guerra in Europa era già bandiera di uno stato, di un esercito, era già ordine costituito.
Viene da lontano la bandiera rossa, c’è chi ha passato la vita a ricostruirne la storia. All’inizio fu addirittura una minaccia di sopraffazione, di repressione, di violenza dei forti sui deboli. I pirati issavano la Jolly Roger per far sapere che non avrebbero fatto prigionieri se ci fosse stata resistenza all’abbordaggio. Città e castelli sotto assedio la mettevano per dire che mai si sarebbero arresi.
Fu la bandiera della sfida, dell’accanimento guerresco, della voglia di battersi fino all’ultimo uomo, più che della liberazione possibile. Furono gli ammutinati della Royal Navy alla foce del Tamigi a issarla dandole una prima spruzzata di profumo di rivolta, la Rivoluzione francese preferì pervicacemente il tricolore e il berretto frigio. Divenne il simbolo che tutt’oggi conosciamo nel 1832: a Merthyr Tydfil, nel Galles, i minatori in sciopero manifestano sventolando le camicie intrise di sangue dei compagni uccisi dalla polizia privata pagata dai proprietari delle miniere. Da allora si diffonde nel Regno unito, in Germania, in Francia, è nelle mani degli oppositori alla Monarchia di Luglio, e di socialisti e repubblicani nella rivoluzione del 1848 fino all’apogeo, la Comune di Parigi e da qui nell’immaginario dei rivoluzionari russi e di tutto il movimento operaio. Oggi ha fatto una ben misera fine. Non è il vitale cencio pasoliniano ma solo un drappo inerte. Non allude più a un futuro che si credeva radioso in nome del quale si era disposti ad attraversare l’incubo.
Non infiamma, non commuove, non emoziona. Semplicemente annoia, come la reiterazione ossessiva della parola contro, come i contestatori per mancanza di meglio, i manifestanti del sabato: è svilito a registro notarile dell’esistenza in vita di sigle, partiti e partitini, sindacati, comitati.
Le donne e gli uomini che hanno dato la vita per la loro libertà e per la nostra non immaginavano certo che un giorno ci sarebbe stata una loro Associazione nazionale, con tanto di timbri, bolli, direzioni e apparati.
Che a ogni decennale ci sarebbero stati festeggiamenti sontuosi accompagnati da lunghe e fruste serate televisive che inquinano quel gesto che fu grande proprio perché semplice e deciso nello spazio di una notte.
Che dal loro sacrificio sia nata tanta bolsa retorica. Loro che sanno che non fu guerra di popolo ma di un’esigua minoranza: raccontava Pietro Secchia che ne fu il principale capo militare che bisognava spingerli lassù in montagna a calci nel culo e dio sa se la loro ritrosia, le loro paure non sarebbero state anche le nostre. Di quel coraggio restano lettere dei condannati a morte e generazione dopo generazione ce le siamo sorbite come atto ipocritamente dovuto, cioè un incubo.
Ci vuole un po’ di verità per scaldare cuori ormai incartapecoriti, che dica chiaramente che questa libertà la dobbiamo alle armate anglo-americane, non continueremmo a deridere i discendenti di quei ragazzoni che ci portarono carne in scatola, succo di pompelmo, Lucky Strike e In the mood prima di finire sotto una croce di campo. L’avesse detto qualcuno fin da subito non staremmo ancora a dover riparare i guasti causati dal falso storico.
A riscattare l’onore della Francia ci pensò un generale che ebbe un’idea fulminante: dire che finché lui c’era, il suo paese esisteva in lui e con lui. In Italia nessuno poteva fare come De Gaulle, l’8 settembre fu la pietra tombale di un’intera classe dirigente. Parlò allora la bandiera rossa, fu una grande cosa ma non per questo bisognava mentire e continuare a mentire dopo, ancora fino ad oggi. Il doppio carattere della storia ce lo ritroviamo addirittura in Costituzione, una Repubblica fondata sul lavoro e intrisa di cultura antifascista, come dire abbiamo un grande futuro.
Il fenomeno Renzi è nato al di fuori delle bandiere rosse, lontano dalla simbologia mortuaria del movimento operaio. Da lui ci si aspettava un discorso di verità sia pure minima, la carica istituzionale e le cerimonie commemorative non giustificano il riallineamento sulla retorica ufficiale. Prima di lui un altro innovatore si mise al collo un fazzoletto partigiano: fu l’inizio della sua fine politica.
Lanfranco Pace - 23 aprile 2015 - Il Foglio