In prima pagina sul Corriere della Sera oggi compare un’ode a Michela Murgia firmata da Roberto Saviano, due dei principali scrittori italiani. Con molta meno enfasi, un po’ nascosto nelle pagine interne, il Corriere della Sera ha pubblicato nei giorni scorsi un testo in cui Susanna Tamaro (la scrittrice italiana che ha venduto più copie di tutte al mondo, terza assoluta dopo Eco e Collodi) racconta la sua disforia di genere infantile: voleva disperatamente essere maschio, poi con l’adolescenza la questione si è “dissolta come neve al sole” e la riappacificazione con il proprio essere donna è stata naturale. Scrive la Tamaro che se fosse caduta nelle grinfie dei “falchi gender” a otto o dieci anni avrebbe avuto la pubertà bloccata dalla triptorelina per poi finire dipendente a vita da pillole e iniezioni di ormoni “perché la natura è più forte della cultura” e di certo di ogni cultura ideologica come quella che sottopone i bambini definiti “trans” a tali trattamenti. Michela Murgia e Roberto Saviano tifano invece per quella ideologia con i loro scritti imbevuti di teorie queer contro la famiglia naturale. E allora mi sono incaponito a cercar di capire chi ha ragione.
I protocolli sulla disforia di genere nei bambini basati sul blocco della pubertà con la triptorelina sono fondati su uno studio olandese del 2006 finanziato indovinate da chi? Dai produttori della triptorelina. Tale studio è stato dimostrato fallace e privo dei necessari follow up, uno dei 55 bambini dello studio è addirittura morto. La comunità scientifica ormai rigetta la fondatezza di quel lavoro e un quotidiano olandese ha dimostrato come nel 2023 quei protocolli siano di fatto pericolosi perché hanno generato migliaia di detransitioners, ragazzi insomma che raggiunta la maturità giovanile come la Tamaro si troverebbero a proprio agio con il proprio sesso di origine ma hanno però subito a differenza della scrittrice conseguenze devastanti dalla somministrazione di triptorelina, ormoni e altri interventi. I falchi gender però non vi informeranno mai sullo studio olandese del 2006, su chi l’ha finanziato, sull’articolo del 2023, sui migliaia di giovani detransitioners che chiedono giustizia, sulle cause civili e penali che hanno portato alla chiusura di istituti come il londinese Tavistock dove la triptorelina veniva somministrata.
Così, allo stesso modo, il limpidissimo testo di Susanna Tamaro è stato nascosto nelle pagine interne del Corriere della Sera e titolato in modo che non fosse comprensibile l’attacco durissimo ai falchi gender. Per Saviano che parla di Murgia, tutt’altro trattamento. E questo spiega che c’è un interesse a devastare la vita delle piccole Susanna Tamaro di oggi, a impedire che diventino quelle limpidi e rare voci di verità che quando pure parlano chiaro devono essere velate e rese inintelligibili. Ma non ancora soffocate. Approfittiamone per aiutare a capire.
POST SCRIPTUM: per chi non lo avesse letto, questo lo scritto di Susanna Tamaro.
“Personalmente, ho avuto l’infanzia devastata dalla disforia di genere e per questo ne posso parlare con cognizione di causa. Ho iniziato ad avere problemi fin dall’asilo, quello che nei primi anni era una forza primigenia e inconscia è diventata una disperata consapevolezza: ero scesa in terra nel corpo sbagliato.
Data l’epoca, non ho mai confessato a nessuno questa mia devastante certezza ma passavo le notti piangendo se mi veniva regalata una bambola o peggio ancora un qualche vestito da bambina. Verso gli otto, nove anni la sofferenza è diventata incontenibile, avevo sentito dire che a Casablanca si poteva cambiare sesso e quella città improvvisamente si era ammantata per me di una luce magica.
Mia nonna, intuiti i miei tormenti, a un Carnevale mi ha comprato un costume da ufficiale, divisa che non mi sono più tolta fino a che le ginocchia non si sono bucate.
Nel corso delle scuole medie, questo mio penare ha iniziato ad affievolirsi; cominciavo ad avere i miei interessi, a immaginare una vita diversa da quella della caserma. Avrei fatto la scienziata, non c’era dubbio.
E poi, al primo anno delle superiori, ho fatto una scoperta incredibile: esistevano i maschi e sembravano essere estremamente interessanti. Potenza e meraviglia degli ormoni! Sarebbero stati anche loro interessati a me? Davanti alla prorompente femminilità delle mie compagne, tentennavo incerta.
Un giorno in cui volli indossare una gonna per cercare di raggiungere il loro livello, lo ricordo come uno dei più spaventosi della mia vita. Ma poi pensai che forse era meglio restare com’ero, con jeans e maglietta, perché se qualcuno si fosse innamorato di me sarebbe stato colpito più dal mio interno che dalla mia carrozzeria. E così è stato.
Le atroci sofferenze della disforia di genere si sono dissolte come un fantasma alle prime luci dell’alba.
Da molti anni ormai mi chiedo però che cosa ne sarebbe stato di me se, a sette, otto, nove anni, fossi stata presa sotto l’ala protettiva dei falchi del gender? Mi avrebbero convinto della liceità delle mie inquietudini e, come nella più cupa delle fiabe, con il sorriso suadente di chi in realtà è un orco, mi avrebbero rassicurato, avrebbero saputo come risolvere i miei problemi e io avrei baciato con riconoscenza le mani di quegli angeli che promettevano di dissolvere il dardo infuocato che da sempre feriva il mio cuore.
Psicologi, pillole, ormoni e poi il grande salto di diventare ciò che avevo sempre sognato: un maschio. Sono fermamente convinta che la storia giudicherà i cambiamenti di sesso imposti ai bambini e ai ragazzi come un crimine.
Un crimine ideologico, perché se io, sognando di essere un ufficiale, avessi accettato di fare il grande passo, non mi sarei trasformata in un maschio ma in un essere bisognoso di cure a vita, perché la natura è estremamente più forte della cultura o dei nostri desideri e, per contrastarla, a parte le conseguenze degli interventi chirurgici, avrei dovuto ingurgitare ormoni fino alla fine dei miei giorni perché tutto l’imponente apparato biochimico del mio corpo avrebbe continuato a gridare solo una cosa: sono una femmina!
Non posso aver pace pensando al folle apparato che è stato messo in moto in questi anni per devastare le vite di bambini e di adolescenti, nel silenzio di una società sempre più pavida e confusa, capace solo di affidarsi agli esperti e ad una scienza che tutto ha a cuore, tranne il bene della persona.
Come si può pensare di bloccare con la triptorelina lo sviluppo di un bambino nell’attesa che decida cosa voglia essere? La vita non è fatta di foto polaroid. E da quando in qua i bambini hanno la consapevolezza e la capacità di determinare da soli il loro futuro? A dieci, dodici, tredici anni, senza alcuna esperienza di cosa sia la vita del corpo, come ci si può avviare a una trasformazione dalla quale non è possibile tornare indietro?
E qui si rientra nel culto tutto postmoderno del bambino come essere saggio onnisciente, a cui va evitato ogni tipo di sofferenza e i cui desideri diventato improrogabile legge. La saggezza educativa, quella realtà che sembra essersi misteriosamente dissolta, imporrebbe a chi sta vicino a bambini con la disforia di genere di lasciarli liberi di manifestare la loro inquietudine, la loro sofferenza — come ha fatto mia nonna con la divisa da ufficiale e come hanno fatto Brad Pitt e Angelina Jolie con la loro figlia che da bambina voleva essere chiamata John e che ora è diventata l’affascinante Shiloh — accompagnandoli verso l’adolescenza, quando, se non si è caricato ideologicamente questo aspetto della vita, nella maggior parte dei casi la disforia si dissolve.
Quante sono le bambine e le ragazze Asperger non diagnosticate avviate al cambiamento di sesso? Quando ci penso, non dormo la notte. E poi, questa ossessione — quella di rinchiudere in un’ideologia la complessità, la ricchezza e la varietà degli esseri umani — vuol dire costringere l’umanità in una gabbia da cui sarà sempre più difficile uscire.
O sei maschio, e devi essere maschio maschio, o sei femmina, e devi essere femmina femmina. Una femmina che non ama essere frou frou, che non civetta, che ha interessi altri rispetto alla seduzione, viene subito inquadrata come qualcuno che sta a disagio nel suo ruolo; e se qualche infelicità ha, magari di altro genere — famiglie sfasciate, anaffettività, abbandoni educativi — verrà subito caricata di un solo punto. L’identità sessuale. O meglio genitale. La stessa cosa vale per i maschi. Un maschio che ami giochi quieti, riflessivi, che preferisca passare il suo tempo con le bambine invece che buttarsi in risse selvagge verrà subito spinto a pensare che in lui c’è qualcosa che non va, qualcosa a cui si potrebbe porre rimedio.
Da che mondo è mondo, i bambini sono stati liberi di sperimentare, tra le penombre dei cespugli o dei cortili, lontano dagli sguardi degli adulti, l’identità e la potenzialità dei loro corpi, sperimentazioni protette dal sacrosanto velo del pudore e capaci di fingere una continua fluidità: «Facciamo che io ero… facciamo che tu eri…». I ruoli dell’infanzia sono da sempre meravigliosamente intercambiabili.
La ricchezza della persona discende proprio da questo continuo dialogo esplorativo, spesso ambivalente. Ci si forma ricercando, indagando, accettando e rifiutando. Ma quando questi movimenti naturali della crescita vengono militarmente guidati in una prospettiva rigidamente ideologica — il cui fine è incasellare e incatenare qualsiasi realtà dell’uomo alla sue genitalità — ci troviamo di fronte a un’umanità spinta nell’angustie di un vicolo cieco.
Eppure, nonostante tutte queste evidenze, la società contemporanea si è abbandonata al sonno della ragione, il pensiero collettivo, astutamente e lungamente indottrinato, continua ad abbattersi con furore come un’onda contro una granitica scogliera e a indicare nella scogliera il grande limite che impedisce a quell’onda di conquistare la libertà del mare aperto.
Questa scogliera è in realtà un altare, e su questo altare avviene il sacrificio di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze che, a causa di un momento di confusione e di fragilità nella crescita, vengono trasformati in vittime sacrificali, perché a qualsiasi persona di buon senso appare subito chiaro che la disforia di genere nell’infanzia è sintomo di qualche altro profondo disagio, primo tra tutti, forse, quello di vivere in un mondo che ti ripete continuamente che la vita non ha senso, che noi siamo soltanto figli del nulla e del caso e che non esiste alcuna realtà al di là di quella forgiata dai nostri desideri”.
Susanna Tamaro