Lo zar usa l’Uomo d’acciaio per giustificare se stesso. Ogni giorno un passo in avanti nell’opera di rivalutazione del dittatore.
Dacci oggi il nostro Stalin quotidiano. Sono ben lontani i tempi in cui i commensali del Piccolo Padre lo adulavano intonando le sue amate canzoni georgiane e facendosi beffe del Padre nostro e della tanto disprezzata religione cattolica. Ma non passa giorno in cui non venga effettuato un altro passo avanti nell’opera di rivalutazione del dittatore sovietico. «Ogni epoca ha bisogno dei suoi eroi». Lo scorso 13 luglio, all’inaugurazione del Forum delle nuove tecnologie, Vladimir Putin ha cominciato così il suo discorso, e fino a qui tutto bene. Si riferiva al 1937, anno di inizio del progetto atomico russo. Tra questi eroi, il presidente russo ha però inserito «un grande fisico», che risponde al nome di Lavrentij Pavlovic Beria, più celebre come il perverso capo del futuro Kgb, nonché esecutore delle purghe più spietate, che cominciarono proprio alla fine di quell’anno.
Sfregi alle vittime
Neanche una settimana, e alla consueta riunione del Consiglio di sicurezza, lo Zar afferma che la Polonia dovrebbe essere grata a Stalin che alla fine della Seconda guerra mondiale le regalò parte del suo territorio, riprendendo così un pensiero caro all’Uomo d’acciaio, per altro errato sia in termini storici che geografici. A maggio, nella Volgograd che portò il suo nome, è stato inaugurato il primo monumento dedicato al leader georgiano negli ultimi vent’anni, mentre dal cimitero di San Pietroburgo è scomparsa la croce di granito che ricorda le vittime polacche della repressione staliniana. Dall’inizio dell’Operazione militare speciale, sono state denunciate le sparizioni di una trentina di monumenti alle vittime della violenza di quel periodo, per lo più lituane o polacche, ovvero i vicini di casa con i quali la Russia intrattiene forse i rapporti peggiori.
La rivalutazione di Stalin non è cominciata ieri. È un progetto che va avanti da tempo. Anche la figura di Beria, il più impresentabile di tutti, un uomo per il quale anche i suoi complici provavano orrore, rappresenta un filo utile per andare indietro nel tempo. Nel 2018 Putin lo elogiò come «uno dei più grandi fisici nucleari russi», e due anni prima arrivò a definirlo «un funzionario che lavorava bene, nell’anonimato». Appena il caso di ricordare che nel 2000 la Corte suprema della Federazione russa si rifiutò di riabilitare la figura di Beria, stabilendo che l’allora capo dei Servizi segreti e i suoi più stretti collaboratori furono gli «organizzatori del terrore» che «colpì migliaia di cittadini innocenti, molti dei quali morirono a causa di esso». Certo, da allora i tempi sono cambiati. Ma il più alto organo giuridico russo ha confermato il suo giudizio anche nel 2014, bocciando il ricorso dei familiari di tre ufficiali che collaboravano con l’ex Commissario del popolo fucilato nel dicembre del 1953, appena nove mesi dopo la morte di Stalin, mandante e principale protettore delle sue malefatte.
Eppure, nel 2006, quando c’era da scagliarsi contro i governanti della Georgia colpevoli di incarcerare funzionari russi, Putin li accusò di «continuazione della politica repressiva di Beria», usando quel nome come un insulto. L’oscillazione nel giudizio su un singolo personaggio dimostra come a cambiare il contesto sia l’esigenza di un uso interno della storia. Il Putin del 2006 teneva ancora i piedi nei due mondi, incerto se rompere con l’Occidente. Quindi, l’elogio dell’Urss più deleteria veniva fatto con giudizio, per ridare orgoglio a una nazione alla ricerca di una identità dopo la fine dell’epoca sovietica. Nel 2000, il neoeletto presidente russo sostituì l’inno della Federazione russa con quello dell’Unione sovietica, scelto di persona da Stalin nel 1943. Caramelle per vecchi nostalgici.
Guerre e invasioni
Adesso la riscrittura della storia è diventata una ragion di Stato. Nel 2007, Putin definì Stalin come un «manager di Stato molto efficiente», e nel film-intervista diretto da Oliver Stone sostenne che il dittatore fu oggetto di una «eccessiva demonizzazione». Nel 2014, poco dopo la prima guerra del Donbass, la televisione indipendente Rain venne attaccata con il pretesto di un documentario nel quale ci si chiedeva se Stalin avrebbe potuto evitare la morte di milioni di suoi connazionali durante la Grande Guerra Patriottica. Ma è negli ultimi due anni, in preparazione dell’attuale conflitto, che la Storia del secolo sovietico diventa un argomento non più contendibile, oggetto esclusivo di revisione da parte dello Zar. Alla fine del 2020, durante una lezione ad alcuni licei, Putin tessé l’elogio del patto Molotov-Ribbentrop che sanciva la reciproca non aggressione tra Russia e Germania nazista. Poco dopo assolse l’invasione della Polonia decisa da Stalin nel 1939, perché era «senza alternativa»: il dittatore sovietico aveva il dovere di proteggere milioni di persone «dall’antisemitismo e dal nazionalismo radicale».
Critiche silenziate
E arriviamo ai giorni nostri. Al discorso pronunciato il 2 febbraio nell’anniversario della vittoria della battaglia di Stalingrado, nel quale Putin paragonava l’invio all’esercito ucraino di carri armati tedeschi all’utilizzo dei panzer nazisti durante l’Operazione Barbarossa. L’associazione premio Nobel per la pace «Memorial», che più di ogni altra in Russia si batte per evitare questa distorsione della storia nazionale, è stata bandita e messa fuori legge, oggetto di un accanimento solo in apparenza inspiegabile. Come scrive il suo segretario francese Nicolas Werth in Putin storico in capo, utile compendio sui rischi di un uso politico del passato, appena pubblicato da Einaudi, Putin non vuole diventare Stalin. Ma lo usa per giustificare sé stesso.