La fine della guerra e una «pulizia etnica» dimenticata: le foibe. Il 15 maggio 1943, la direzione sovietica decide di sciogliere il Comintern. La decisione di rinunciare ufficialmente a «esportare» la rivoluzione mira a rassicurare gli alleati e a migliorare i rapporti con loro. Favorisce altresì l’emergere di una definizione della «via nazionale» al comunismo, propria di ciascun paese.
Nel caso dell’Italia, Togliatti eredita anche la lezione di Gramsci, il quale aveva sostenuto che la classe operaia doveva in qualche modo «nazionalizzarsi» per divenire la forza egemonica di un processo rivoluzionario. Togliatti lascia Mosca il 4 marzo 1944. Al termine di un lungo viaggio con scali a Baku, Teheran, Il Cairo e Algeri, il 27 marzo sbarca a Napoli. Stalin ha deciso di riconoscere il governo Badoglio, costituitosi dall’8 settembre 1943, che amministra con gli Alleati il Meridione, il riconoscimento ufficiale ha tuttavia luogo il 14 marzo, ovvero durante il viaggio di Togliatti, il quale affermerà di non avere saputo nulla della decisione presa da Stalin.
Quella che, dal nome della città in cui aveva sede il governo Badoglio, verrà chiamata «la svolta di Salerno», ovvero il ribaltamento della linea politica fino a quel momento seguita dalle forze antifasciste - in sostanza, il passaggio dall’opposizione alla collaborazione con la monarchia - è stata presentata dalla storiografia comunista come «una graduale ma inesorabile liberazione dall’influenza sovietica». Il carattere autentico ditale «originalità italiana» è stato tuttavia contestato da altri specialisti di storia del PCI, in particolare da Sergio Bertelli.
In ogni caso, la tragica questione dei territori italiani del Nord-Est (la Venezia Giulia e l’Istria) o a forte presenza italiana (la Dalmazia) ha chiaramente dimostrato che, anche quando l’«italianità» era minacciata di vero e proprio sterminio fisico, la direzione del PCI, Togliatti in testa — tranne alcuni quadri e ancor meno la base — rimaneva fedele all’internazionalismo più rigoroso e all’odio di classe più inestinguibile.
A questo proposito si rende necessaria una breve contestualizzazione storica. Appartenute dall’830 al 1797 alla Repubblica di Venezia, quindi, dal 1797 al 1918, all’Impero austro-ungarico, le regioni in questione hanno tradizionalmente fatto da spartiacque tra la cultura latino-veneziana e la civiltà slava. Nel XIX secolo, segnato in questi territori dall’irredentismo italiano, si rilevava già un considerevole scarto sociale e culturale tra la comunità italiana e quella slava, rappresentata dagli sloveni e dai croati. All’inizio del Novecento, mentre la prima era assai prospera, contando fra i suoi membri molti commercianti e armatori, medici, magistrati, insegnanti e funzionari, gli slavi, spesso semplici contadini, erano contraddistinti da un alto tasso di analfabetismo.
Secondo il censimento austriaco del 1900, la popolazione di queste zone era composta per il 42,8 per cento da italiani e per il 48,1 per cento da slavi, cui si aggiungeva una piccola percentuale di «altri», ovvero persone nate nel regno d’Italia e trasferitesi in questi territori. Un censimento italiano del 1921 dava invece dati molto diversi: secondo le sue stime, la popolazione italiana avrebbe rappresentato il 58,2 per cento degli abitanti, mentre gli slavi sarebbero stati solo il 37,6 per cento. All’indomani della Grande guerra, il trattato di Versailles restituì all’Italia il Trentino Alto Adige e, per la parte di storia che ci interessa, ratificò l’annessione della Venezia Giulia. Il trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 aggiunse poi la città di Zara (Zadar), in Dalmazia, e quattro isole situate al largo della costa adriatica. Infine, il patto di Roma del 27 gennaio 1924 permise all’Italia di recuperare Fiume (Rijeka).
A tali differenze sociali e culturali, già di per sé gravide di conflitti, si aggiunse il cambio di amministrazione che ebbe luogo a partire dal 1918. Ben presto, sotto l’amministrazione italiana, che troppo spesso si dimostrò così confusionaria, inefficiente e corrotta, gli slavi rimpiansero l’amministrazione austriaca, efficiente, onesta e forte di una plurisecolare esperienza nel fare convivere popoli diversi.
Con l’instaurazione del regime fascista, si assistette a un’italianizzazione forzata dei toponimi, che risultò offensiva per gli slavi, e ad altre misure vessatorie nei loro confronti come quella di cancellarne usi e costumi. Fu così che, alla fine della guerra, dopo un bombardamento alleato sulla città di Muggia, vicino a Trieste, le autorità della Repubblica sociale italiana (RSI) vietarono alle famiglie delle vittime slave di intonare, durante la cerimonia religiosa, i canti in sloveno.
Ma nulla di tutto ciò può giustificare gli abominevoli massacri perpetrati dai partigiani titoisti, deliberatamente commessi per terrorizzare la popolazione italiana, provocarne l’esodo e condurre così a buon fine quella che merita di essere definita un’«epurazione etnica». Si tratta di una pagina di storia molto buia, sulla quale, nella stessa Italia, si è a lungo steso il velo del silenzio.
I comunisti hanno invece parlato di «fenomeni sporadici prodotti da un’esasperazione popolare in reazione a vent’anni di brutalità e di violenze fasciste». Vedremo quanto tale affermazione sia infondata.
Dopo la capitolazione e l’armistizio firmato da Badoglio l’8 settembre 1943, il Movimento per la liberazione della Jugoslavia diretto da Tito dichiarò l’annessione del «litorale sloveno» dell’Istria e del «litorale croato». Il 24 settembre 1943, Togliatti reagì, scrivendo a Dimitrov che la decisione di Tito e dei comunisti jugoslavi era «prematura». Dimitrov rispose solo nel marzo 1944, rimandando la soluzione del conflitto territoriale al dopoguerra. Si trattava di una decisione «puramente tattica, data la posizione favorevole alla revisione dei confini a favore della Jugoslavia, presa fin dall’inizio della guerra come misura punitiva contro l’Italia»
Ma "le speranze jugoslave apparvero fondate: durante l’incontro clandestino tra Togliatti e i dirigenti jugoslavi Kardelj, Gilas e Hebrang, svoltosi alla metà di ottobre 1944, il leader del PCI accettò di fatto la posizione jugoslava sul problema territoriale e l’inserimento delle formazioni partigiane italiane della Venezia Giulia nell’esercito di Tito, raccomandando soltanto agli jugoslavi di “condurre una politica nazionale in grado di soddisfare gli italiani”, cioè di non rendere noto il contenuto dell’accordo per evitare una reazione negativa."
In questa vicenda le date sono particolarmente significative. Abbiamo visto che Togliatti era rientrato in Italia il 27 marzo 1944 e che aveva accettato le rivendicazioni territoriali dei comunisti jugoslavi nell’ottobre dello stesso anno. Ma i primi massacri di italiani frontalieri ebbero luogo dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.
Per trentacinque giorni, quindi, Trieste e l’Istria rimasero in mano ai partigiani di Tito, i quali, secondo le stime più affidabili, uccisero tra i mille e i millecinquecento civili italiani, il che non poteva essere ignorato da Togliatti.
Questi massacri sono noti come i massacri delle foibe. Il termine «foiba» è una corruzione dialettale del latino «fovea», che significa «fossa».
Le foibe sono dei pozzi naturali, delle voragini a forma di imbuto rovesciato, formate dall’erosione, che possono raggiungere i trecento metri di profondità. Sono in qualche modo ciò che i geologi chiamano doline, delle depressioni, cioè, tipiche delle regioni a rilievo carsico. Ora l’Istria è, a detta dei geologi, un’ «enorme spugna pietrificata», costellata da numerosissime voragini. Proprio all’epoca di cui stiamo trattando è apparso in italiano il verbo «infoibare» per designare il metodo di eliminazione di un gruppo di persone consistente nel gettare le vittime in tali voragini, dopo averle giustiziate o meno con armi da fuoco.
Tutte le testimonianze relative a questi massacri — che, interrotti nel settembre-ottobre 1943 a causa dell’occupazione della regione da parte delle
truppe tedesche, ripresero a pieno ritmo, e su più vasta scala, dal primo maggio 1945 al 15 giugno — concordano sull’indicibile barbarie degli atti che furono commessi, i quali ricordano più le "imprese" dei serial killer che non le atrocità inevitabili in qualsiasi conflitto ideologico. Le vittime, essenzialmente membri dell’élite sociale e della classe media, venivano arrestate di notte. Si legavano loro le mani con il fil di ferro, quindi le si conduceva sull’orlo delle voragini, non senza averle sottoposte alle più ignobili sevizie. Prima di essere gettate nel baratro, le donne erano sistematicamente violentate, mentre gli uomini venivano talvolta svuotati delle viscere ed evirati.
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le vittime, legate le une alle altre, erano uccise in questo modo: si spingeva la prima nel baratro che cadeva trascinandosi dietro le altre.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i fascisti non erano gli unici bersagli. Si è a conoscenza di parecchi casi in cui alcuni capi o combattenti partigiani italiani non comunisti furono giustiziati per avere comunicato il loro rifiuto della pura e semplice annessione delle province del Nord-est alla Jugoslavia. Fu così che il 7 febbraio 1945, a Porzùs, nella regione di Udine, uno dei principali carnefici, Toffanin, comandante dei gruppi partigiani per l’Alto Friuli e la provincia di Gorizia, uccise a colpi di arma da fuoco, insieme ai suoi uomini, ventidue combattenti della brigata Osoppo, composta da militanti di Giustizia e Libertà e partigiani cattolici, fra cui il fratello di Pier Paolo Pasolini. Condannato in contumacia nel 1957 all’ergastolo, il carnefice si nascose in Jugoslavia, quindi in Cecoslovacchia, per essere poi graziato nel 1978 dal presidente Sandro Pertini.
In Italia è stato stilato un elenco in cui, oltre a Toffanin, compaiono altri dieci criminali di guerra. Ma questi uomini sono morti tranquillamente dall’altra parte della frontiera o si godono ancora una tranquilla vita da pensionati sul litorale croato o in Slovenia.
A lungo occultati nella stessa Italia, nonostante il lavoro di informazione condotto dalle associazioni di rifugiati — 350.000 italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, pari al 90 per cento della popolazione interessata, scelsero l’esodo tra il 1945 e il 1947 — i massacri delle foibe e quelli, più «classici», perpetrati nelle stesse regioni furono ufficialmente riconosciuti, quantunque in modo prudente e ambiguo, solo nel 1982.
Due foibe, quella di Basovizza e quella di Monrupino, entrambe nei pressi di Trieste (le uniche a far ancora parte del territorio italiano) furono quindi dichiarate «monumenti di interesse nazionale». Si dovette attendere il 3 novembre 1991 per vedere il presidente della Repubblica Francesco Cossiga andare a inchinarsi di fronte alla voragine di Basovizza. Da alcuni anni, tuttavia, le cose hanno incominciato a cambiare, Dopo le opere dedicate ai massacri dalle associazioni di rifugiati, sempre tacciate di parzialità, le foibe sono state oggetto di veri e propri studi scientifici, due dei quali recentemente pubblicati.
Per quanto riguarda i massacri anti-italiani del 1945, lo studio più recente, quello di Gianni Oliva, propone le seguenti cifre: 994 spoglie esumate, 326 vittime accertate ma non rinvenute, 5643 vittime presunte in funzione delle segnalazioni locali o di altre fonti (anagrafe, ecc.), 3174 persone deportate, che hanno trovato la morte nei campi jugoslavi: ovvero, un totale di 10.137 vittime. In questi ultimi anni, in loro onore sono state affisse lapidi ed erette stele commemorative e, per esempio a Trieste, sono stati rinominati viali, strade e piazze per rendere omaggio ai suppliziati.
Togliatti non ebbe mai una parola per le foibe. È pur vero che il 10 maggio 1945, giorno dell’ingresso delle truppe di Tito a Trieste (quelle alleate entrarono fin dal giorno successivo, dimostrando così la loro determinazione), aveva invitato i lavoratori dalle colonne dell’"Unità" ad accoglierle «come truppe liberatrici» e a «collaborare con esse nel modo più stretto per schiacciare la resistenza (sic) tedesca e fascista».
Dopo la conferenza di Parigi del giugno 1946, che definì lo statuto del Territorio libero di Trieste (TLT), propose un vero e proprio baratto a Tito: l’Italia avrebbe mantenuto Trieste ma avrebbe ceduto in cambio tutto il resto della Venezia Giulia, Gorizia compresa. La proposta ricevette un netto rifiuto da parte di Tito, che su Trieste non intendeva trattare, nonché quello, dettato da ragioni diametralmente opposte, del PSI e del suo capo Pietro Nenni.
Alla fine, Tito fu costretto a cedere su Trieste. Non ottenne neppure la Venezia Giulia, ma tutta l’Istria e il litorale dalmata, con Fiume e Zara, furono annessi alla Jugoslavia. Dopo la rottura tra quest’ultima e l’URSS, nel 1948, il problema di Trieste divenne secondario per i sovietici, e quindi anche per Togliatti. Ma lasciò tracce profonde: questa volta Togliatti aveva esagerato. «Trieste provocò una frattura tra i comunisti e le altre forze politiche e, fatto non meno importante, un notevole contrasto tra i dirigenti del PCI e la base del partito.» Anteponendo sistematicamente gli interessi di classe a quelli nazionali, Togliatti e la direzione del PCI non avevano certo imboccato la via migliore per fare del «partito nuovo» un grande partito nazionale, agli occhi del popolo italiano.
L’epurazione antifascista e il dopoguerra
Togliatti fu ministro della Giustizia dal 1945 al 1946, nel primo governo uscito dalla Resistenza e diretto da Ferruccio Parri, uno dei capi del Partito d’Azione, e nel primo governo diretto dal democristiano Alcide De Gasperi. Secondo alcuni, ancora piuttosto numerosi, come epuratore antifascista si sarebbe mostrato troppo tenero. Si tratta di un giudizio che va attenuato. Negli ultimi mesi della guerra civile e nei primi dopo la Liberazione, Togliatti approvò senza batter ciglio le esecuzioni sommarie che avevano luogo soprattutto al Nord e in Emilia Romagna. Non si oppose seriamente neppure agli abusi, di cui non è stato ancora fatto un bilancio, della Volante rossa, composta da partigiani che si spostavano in continuazione, mescolando impegno politico, regolamento personale di conti e banditismo. Ma, per gusto, per temperamento e per scelta, Togliatti era un uomo d’ordine. Nutriva un profondo disprezzo per le correnti anarchiche e libertarie del movimento operaio e non amava neppure la partizanscina, il carattere spontaneo e incontrollabile dei movimenti di insurrezione popolare. Si ha l’impressione che, per il Togliatti del dopo 1945, l’insurrezione armata debba seguire, e non precedere, la vittoria alle urne, come per dare il colpo di grazia al nemico.
Togliatti era inoltre troppo intelligente per farsi illusioni sulla possibilità di una vera e propria epurazione politica dopo oltre vent’anni di fascismo, a meno di non volere eliminare un gran numero di funzionari. Si può quindi affermare che, in un certo senso, in materia di epurazione abbia avuto un molo di moderatore, non per umanità, ma per strategia politica, allo scopo di trasformare il suo partito di quadri in un partito di massa. Nelle Norme provvisorie di organizzazione che redasse e fece approvare fin dal 1944, si diceva che «il partito accoglie nel suo seno tutti i lavoratori e i cittadini onesti che ne accettano il programma politico», compresi quelli iscritti al PNF prima del 25 luglio 1943, purché non si siano «resi personalmente colpevoli di attività fascista».
Il che costituisce una delle cause della limitata «defascistizzazione» dell’Italia, della straordinaria «crescita» del PCI in pochi anni — al suo ritorno in Italia, Togliatti ammise il principio dell’ammissione diretta, senza periodo di prova, in contraddizione con tutti i principi leninisti — e, se si associano i due fenomeni, del «deficit democratico» di cui, secondo alcuni, l’Italia soffrirebbe ancora oggi.
In una direttiva firmata «Ercoli» risalente al 6 giugno 1944 — a un momento, cioè, in cui il movimento dei partigiani era in pieno sviluppo e in cui l’offensiva degli Alleati era sul punto di liberare l’Italia centrale — il dirigente comunista ricordava che la lotta in corso non aveva l’obiettivo di «imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista», ma mirava alla «liberazione nazionale» e alla «distruzione del fascismo».
Ciò basterebbe a provare che è impossibile stabilire una qualsiasi filiazione tra lui e i membri del «Partito comunista combattente», altrimenti detto Brigate rosse, nato in parte dal mito della «Resistenza tradita».
Ciò non significa che dopo il 1945 Togliatti sia divenuto un vero democratico, come dimostrano i suoi incontri quasi quotidiani, nel dopoguerra, con Michail Kostylev, ambasciatore dell’URSS in Italia dal 1944 al 1954, che incontrò anche segretamente, in un bosco nei pressi di Roma, il 23 marzo 1948, alla vigilia di elezioni legislative in cui era prevista una sicura vittoria del PCI e che si risolsero invece in un fallimento. In quell’occasione, i due uomini discussero appunto dell’opportunità o meno di una rivolta armata.
Nel 1951 fu ancora Togliatti a essere scelto da Stalin per dirigere il Cominform, carica che egli rifiutò mentre era a Mosca, con diverse scuse, ma in realtà perché non era più sicuro di niente, nemmeno della sua stessa sorte, nell’atmosfera di follia degli ultimi anni del leader sovietico. Più tardi, a proposito dell’insurrezione di Budapest, Togliatti pubblicò sull’Unità un articolo intitolato — incredibile ma vero — Per difendere la civiltà e la pace, in cui diceva, tra l’altro: «Una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa ... non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza, questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell’uovo».
Togliatti morì vicino a Jalta, di un’emorragia cerebrale, il 21 agosto 1964. Una fotografia pubblicata nel libro di Agosti mostra la sua bara trasportata all’aeroporto di Jalta dal suo vecchio amico Luigi Longo, insieme a Nikita Chruscev, Leonid Breznev e Nikolaj Podgornyj, come a chiudere il cerchio. La sua carriera, per quanto lunga e ricca sia stata, non esaurisce ovviamente quarant’anni di storia del PCI. Ma è certo che li ha pesantemente condizionati. Il resto, cioè tutto ciò che è seguito, è sicuramente un’altra storia. Ma una storia che dovrà risolversi, un giorno, a fare veramente i conti con il passato.
pagine 438-444 del "Il libro nero del comunismo europeo" - capitolo "Togliatti e la difficile eredità".