HONG KONG - Vivi ne avevo visti solo due, e per pochi secondi. Li avevano catturati i soldati governativi e li stavano torturando quando Sydney, Pran ed io arrivammo in un avamposto isolato del fronte, a pochi chilometri da Phnom Penh. Facemmo appena in tempo a capire quello che succedeva e a scattare un paio di foto, che i soldati ci cacciarono via.
Mentre ci allontanavamo, sentimmo due colpi di pistola. Anche quei due Khmer rossi erano diventati come tutti gli altri loro compagni che vedevamo quasi ogni giorno: dei cadaveri anonimi, sfigurati; delle vittime, ai nostri occhi di allora, di una guerra che gli americani avevano imposto alla Cambogia nel tentativo di vincere, o almeno di districarsi da quella che stavano perdendo in Vietnam.
Era la primavera del 1973. La sera, intorno alla piscina dell'hotel Le Phnom dove ci si ritrovava a smaltire le emozioni, le paure e le frustrazioni della giornata, si discusse, come sempre, dell' assurdità di quella guerra e della stranezza del nostro ruolo di giornalisti, voyeurs impotenti della distruzione di un paese e dell' abbrutimento di un popolo a cui tutti ci sentivamo legati ogni giorno di più. Avendo ancora negli occhi le immagini dei loro cadaveri disseminati nelle risaie dai bombardamenti americani, o abbandonati al margine delle strade dai soldati governativi (che a volte toglievano loro il fegato per mangiarlo e così acquisire la loro forza), i Khmer rossi, partigiani di una Cambogia contadina che si difendeva dall' intervento della superpotenza Usa e si opponeva al regime corrotto ed inefficiente messo al potere dal colpo di Stato organizzato dalla Cia, i Khmer rossi ci sembravano l' unica via d' uscita dall' incubo della guerra. Fossero arrivati loro a Phnom Penh, il conflitto sarebbe finito. Senza più protettori stranieri nè dall' una nè dall' altra parte, i cambogiani si sarebbero intesi fra di loro e la Cambogia avrebbe ritrovato la sua pace di paese povero ma indipendente. Allora la pensavamo così. Come molti altri giornalisti che lavoravano in Indocina, io ero contrario a quella guerra. Del resto, come si poteva pensarla altrimenti? La figura del proconsole americano Thomas Enders, che da una stanza ad aria condizionata dell' ambasciata Usa dirigeva le micidiali missioni dei bombardieri, l' esercito governativo che reclutava bambini e compilava liste di soldati inesistenti per gonfiare il numero delle truppe e consentire agli ufficiali di intascare gli stipendi pagati da Washington, la spaventosa corruzione dei funzionari (compreso il fratello del presidente Lon Nol, noto per rubare armi e munizioni dalle caserme per poi rivenderle ai Khmer rossi), erano cose che avevamo sotto gli occhi. E qui era una parte dell' assurdo: la guerriglia restava misteriosa e sconosciuta, mentre gli americani si lasciavano osservare e giudicare. Chiunque arrivasse a Saigon, a quei tempi, con una lettera di presentazione di qualsiasi giornale del mondo, veniva accreditato e nominato formalmente maggiore dell' esercito americano, così da poter andare in ogni settore del fronte godendo della precedenza sugli aerei militari e sugli elicotteri. Eppure non si poteva essere dalla parte degli americani.
Di qui, per contrasto, la implicita "simpatia" per gli altri: i partigiani, i Khmer rossi, quelli che noi vedevamo solo morti, solo come vittime. Ma chi erano davvero i Khmer rossi? "Assassini sanguinari, accecati dall'ideologia marxista-leninista", dicevano i diplomatici americani e gli agenti della Cia che pullulavano in mezzo a noi. Ma noi non ci facevamo influenzare. Anzi, proprio perché quei giudizi venivano da loro, tendevamo a pensare esattamente il contrario.
Ricordo una volta in cui l' ambasciata americana ci fece sapere che i Khmer rossi erano entrati di notte in un villaggio governativo a qualche decina di chilometri da Phnom Penh ed erano ripartiti dopo averne ucciso sistematicamente tutti gli abitanti, compresi donne e bambini. Se volevamo vedere coi nostri occhi quel "massacro comunista", bastava che andassimo sulla strada numero tale fino al chilometro tale, poi voltare ecc...
Ci andai e ricordo benissimo di aver girato in mezzo a quelle decine di cadaveri, sgozzati, impalati, maciullati, cercando di convincermi che non potevano essere stati uccisi dai guerriglieri, che magari quella gente era rimasta vittima dei bombardamenti americani e poi era stata messa lì, "usata", per così dire, in modo da farci credere alla storia del massacro comunista.
Un'altra volta un agente della Cia mi raccontò, con molti particolari, che i Khmer rossi, per far vedere che nelle zone "liberate" tutti i cambogiani dovevano considerarsi uguali, avevano costretto gli abitanti di una cittadina di cui avevano preso il controllo, a smantellare i piani delle case più alte ed a segare i tetti delle capanne che svettavano sulle altre, così che nessuna abitazione fosse più alta di un' altra.
Come crederci? Neppure il fatto che di tutti i colleghi che avevano raggiunto le forze guerrigliere, nessuno era tornato a raccontare come fossero in realtà i Khmer rossi, fu sufficiente a farmi anche solo sospettare che ci fosse qualcosa di spaventoso al di là delle linee. Dall' inizio della guerra, nel 1970, ben trentatre giornalisti erano scomparsi nelle zone tenute dai Khmer rossi: un prezzo altissimo pagato alla ricerca della verità. Alcuni di loro erano, come si diceva allora, dei "war freaks": giovani attratti dall' avventura, venuti a capire se stessi più che la guerra e che spesso rischiavano eccessivamente per uno scoop; ma altri erano professionisti seri, che coscientemente avevano cercato di stabilire contatti con i Khmer rossi per poter raccontare la loro parte della storia. Koki Ishihara, traduttore di George Orwell in giapponese e corrispondente dell' Agenzia Kyodo a Phnom Penh, annunciò chiaramente ad alcuni amici dove aveva intenzione di andare, ed un giorno passò le linee. Non lo si rivide mai più; eppure per anni si continuò a pensare che era vivo e che stava con i guerriglieri. Io stesso avevo deciso di andare in una zona "liberata" della Cambogia passando per il Laos, assieme al corrispondente dell' Afp da Vientiane, Marc Filloux.
Avevo fatto la stessa cosa con i vietcong nel Sud Vietnam, e mi pareva logico non "coprire" la guerra solo dalla parte americana. All' ultimo momento ebbi paura; Marc partì da solo, e svanì. Soltanto qualche anno più tardi alcuni profughi raccontarono di avere visto uno straniero picchiato a morte come spia poco dopo aver passato il confine. L' idea che i Khmer rossi fossero dei brutali e metodici assassini non mi aveva mai sfiorato; così, quando Phnom Penh, che avevo lasciato da poco, cadde nelle loro mani, dalla Thailandia cercai di raggiungere quei colleghi che, come Sydney, erano rimasti in città per raccontare la "liberazione". Attraversai a piedi il ponte di confine fra Aranyaprathet e Poipet e mi inoltrai, sempre a piedi, in Cambogia, finchè non fui catturato e messo contro un muro dai primi, veri Khmer rossi che avessi mai visto: un gruppo di giovani dalla pelle riarsa usciti dalla giungla.
Mi resi conto d'aver a che fare con gente dura e fanatica, ma ancora non capii. Dopotutto, si fecero persuadere a lasciarmi andare ed a riaccompagnarmi alla frontiera. Verso il novembre di quell' anno 1975, ondate di profughi cambogiani cominciarono ad arrivare in Thailandia narrando storie di massacri e di fosse comuni dove i Khmer rossi facevano "scomparire" migliaia di persone. Alcuni raccontavano che per smascherare i "nemici di classe" e riconoscere gli intellettuali, i Khmer mettevano gli uomini in fila e chiedevano loro di salire su un albero di cocco. Chi sapeva arrampicarsi fino in cima veniva considerato proletario e mandato a lavorare nei campi di riso; chi non ci riusciva veniva eliminato.
Come crederci? Sembrava una parodia delle selezioni naziste di ebrei nei campi di sterminio. Altri profughi dicevano che i Khmer rossi, oltre agli apparecchi radio, alle immagini religiose e alle suppellettili, distruggevano tutte le pentole e gli utensili di cucina che trovavano in casa della gente. Come credere che dei partigiani togliessero al popolo quel poco che possedeva? Lo si capì dopo, quando risultò chiaro che i Khmer rossi volevano frantumare il nucleo familiare, impedire che la gente, cucinando in piccoli gruppi, cospirasse; così obbligarono tutti a mangiare nella mensa comune, dove potevano essere controllati. Passai intere settimane andando avanti e indietro lungo la frontiera, nei vari campi, a parlare con persone provenienti da parti diverse del paese, che raccontavano più o meno le stesse storie. TA poco a poco mi resi conto che quello che i profughi mi dicevano erano solo i dettagli di un grandioso piano dell' orrore che i Khmer rossi, ed i loro protettori cinesi, stavano mettendo in pratica in Cambogia.
Quel piano lo capii nella sua totalità solo col tempo, dopo essere stato in Vietnam, dopo aver visitato la Cambogia, dopo aver visto pozzi, caverne e dighe piene di scheletri, dopo aver camminato attraverso campi dove era impossibile non calpestare le ossa di migliaia e migliaia di persone che erano state soffocate, bastonate, abbandonate.
I Khmer rossi non sono stati una aberrazione; sono i figli ideologici di Mao Zedong; sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; e in questo la Cina ha enormi responsabilità. Pechino sapeva e approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 ed il 1978 ebbero luogo nel liceo Tuol Sleng, a poche decine di metri dall' ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si tenevano i conti della gente che veniva via via eliminata. Durante gli anni che ho trascorso a Pechino ho saputo di un diplomatico cinese ricoverato in un ospedale psichiatrico: era stato assegnato a Phnom Penh e, testimone e complice delle stragi, era impazzito. William Shawcross, nel suo libro Sideshow, individua le radici della brutalità dei Khmer rossi nell' essere stati vittime della brutalità dei bombardamenti a tappeto americani; ma questa può essere stata solo un' aggravante. La verità, come dicevo, è che i Khmer rossi sono il prodotto di una ideologia. Pol Pot non è un pazzo; quello che ha tentato di fare in Cambogia è la quintessenza di ciò che ogni rivoluzionario vorrebbe realizzare: una nuova società. La stessa cosa, ad esempio, aveva cercato di fare Mao con la rivoluzione culturale.
L'operato di Pol Pot fa più impressione, sembra più disumano, solo perché Pol Pot ha ridotto i tempi di realizzazione, è andato direttamente al nodo della questione. Come tutti i rivoluzionari, Pol Pot aveva capito che non si può creare una società nuova senza prima creare degli uomini nuovi, e che per creare degli uomini nuovi bisogna eliminare innanzitutto gli uomini vecchi, distruggere la vecchia cultura, cancellare la memoria collettiva. Di qui il progetto dei Khmer rossi di spazzar via il passato con tutti i suoi simboli e con i portatori dei suoi valori: la religione, gli intellettuali, le biblioteche, la storia, i bonzi.
Ciò avrebbe permesso di allevare uomini senza memoria, di tirar su bambini simili a pagine bianche su cui scrivere quello che "Angka", il partito, voleva. E se i vietnamiti non avessero invaso la Cambogia nel 1978, questo esperimento sarebbe riuscito, perché una nuova generazione di cambogiani, di bambini che non avevano altra famiglia se non il partito, stava già crescendo. Quel che ancora oggi è interessante, è che la sinistra che ha sostenuto ideologicamente la guerriglia indocinese durante la guerra con gli Stati Uniti - non ha preso posizione - non ha preso sul serio il fenomeno Pol Pot, non ha cercato di spiegarselo e lo ha liquidato come se si trattasse semplicemente di una folle deviazione.
Si era fatto praticamente lo stesso con la rivoluzione culturale cinese, prendendo per buono quello che oggi Deng Xiaoping vuole farci credere, cioè che gli anni di caos, di torture e di uccisioni sarebbero stati null' altro che l' aberrazione di quattro personaggi, la cosiddetta banda antipartito. E invece individua le radici della rivoluzione culturale vuol dire individuare le origini del "polpottismo" e dei Khmer rossi: che stanno, appunto, nell'ideologia. Il dramma della Cambogia continua e le difficoltà di capire restano, ora che i Khmer rossi sono diventati nuovamente "le forze di resistenza" e i governi occidentali danno loro appoggi politici e materiali.
Qualche giorno fa, in un campo di Khmer rossi in territorio thailandese, a pochi chilometri dalla frontiera cambogiana, dove autocarri delle Nazioni Unite portavano acqua e viveri, ho visto donne e ragazzi della guerriglia partire per la giungla recando sulla testa scatole di pesce "donato dagli Stati Uniti". Il comandante del campo, un "quadro" dei Khmer rossi della prima ora (di quelli coinvolti nei massacri), al quale avevo chiesto che cosa pensasse della cifra di due milioni e più di morti al tempo in cui i Khmer erano al potere, mi ha risposto sorridendo: "Finiamola di parlare del passato. Parliamo piuttosto del presente, del fatto che i vietnamiti occupano il nostro paese...". Davvero bisogna smettere di parlare del passato, visto che abbiamo cominciato soltanto da poco a discuterlo?
di TIZIANO TERZANI