Sei anni fa lo scrittore non conformista Dominique Venner scelse Notre-Dame per uccidersi con un colpo di pistola.
Era il suo modo di dire addio a una «certa idea» della Francia e dell'Europa, una nazione e un continente di cui si ostinavano a rimanere in piedi i monumenti, ma si era nei secoli disseccata la linfa; una protesta e, insieme, una rivendicazione perché le ragioni per vivere e le ragioni per morire sono spesso le stesse e quando le parole sembrano risultare impotenti, è necessario un atto per esprimere ciò che si prova.
Al simbolismo di quel gesto, ieri, come per un paradossale gioco di specchi, le immagini di quella cattedrale che si accartoccia sotto il fuoco restituiscono un significato esemplare: raccontano cioè il tramonto forse definitivo di ciò che a lungo fu un susseguirsi di splendide aurore, l'auto-dissolversi in un fuoco che nulla ha di purificatore, ma tutto dell'imperizia, della malagrazia, della trasformazione di un luogo di culto e di arte, in un divertimentificio di massa, gadget, business, dell'emblema stesso di una città, di una nazione.
Sempre simbolicamente, raccontano la distanza siderale che separa la politica contemporanea, quella francese, ma in fondo quella di tutto il Vecchio continente, da ciò che nella storia l'ha preceduta, i cortei di regni e di religioni, i capolavori della pittura e dell'ingegno, la voglia di lanciare un'idea di civiltà che oltrepassasse il tempo dell'agire umano per dilatarsi nell'eternità.
Infine, e ancora simbolicamente, quelle guglie che scompaiono rimandano sì alla memoria le immagini dell'11 settembre, le Twin Towers attraversate da un proiettile di fuoco, solo che qui c'è l'aggravante, come dire, dell'incuria umana rispetto al nichilismo distruttore e omicida. Nessuno ha voluto colpire Notre-Dame, non c'è alcun nemico contro cui combattere e contro il quale dichiararsi uniti. Una parte ideale dell'Europa brucia come in una sorte di falò rituale, per stanchezza, per eccesso di sicurezza, per aver perso il proprio centro. Ideale, sacrale.
Ambiziosa per dimensioni, edificata, a partire dal 1160, sul luogo dove sorgeva la merovingia Saint-Etienne, Notre-Dame subì le sue devastazioni peggiori al tempo della Rivoluzione francese, quando la furia iconoclasta del razionalismo giacobino ne deturpò la facciata e trasformò il suo interno in un deposito. Pochi anni dopo, però, Napoleone la scelse per la cerimonia con cui, incoronando se stesso imperatore, riconciliava la Chiesa e la nazione, il passato al presente. Da allora, la cattedrale è entrata nell'immaginario non solo francese, finendo per incarnarsi con una grandeur che sempre più trovava la sua ragion d'essere aggrappandosi a ciò che era stata, la mediocrità dei tempi e degli uomini impedendole di ripetersi.
Chi ricordi il rogo veneziano della Fenice, non può ora che augurarsi che anche nel caso di Notre-Dame si proceda con un «com'era, dov'era», l'unico modo per premiare la storia e la memoria e non correre dietro alle bizzarrie architettoniche spacciate per moderni «omaggi».
Quel fuoco ci ricorda, comunque, che nella storia europea nulla è dato per scontato, che più ci si ostina a considerare ciò che si è stati come un mero reperto archeologico, più esso si vendica infliggendoci le ferite più profonde. Quelle che non si cicatrizzano.