Politica, società, economia, morale, Chiesa: qualunque sia l’ambito al quale guardiamo, oggi facilmente prevale in noi il senso di disorientamento. L’impressione generale è che non solo manchino certezze alle quali agganciarsi e punti di riferimento utilizzabili per attribuire senso all’esistere, ma che qualcuno, da qualche parte, stia lavorando alacremente perché certezze e punti di riferimento siano sempre meno individuabili e utilizzabili.
Qui nella vecchia Europa, in particolare, lo smarrimento è palese. Nazioni e Stati non sono più in grado non solo di attuare politiche in base alla propria responsabilità e libertà, ma addirittura di dare ragione del proprio essere. Altri organismi hanno preso il sopravvento, altre logiche si sono sostituite a quelle che un tempo, bene o male, trovavano fondamento nell’identità nazionale e nell’organizzazione statale come supporto di natura normativa. Ora le decisioni sono prese altrove, lontano, spesso non si sa da chi. La stessa idea di cittadinanza è in crisi. Siamo cittadini, ma di che cosa? E in che senso? Quelle che ci mancano non sono certamente le norme. Anzi, viviamo in una realtà regolata fino all’eccesso, in ogni dettaglio, ma ci sfugge l’idea generale che sta dietro questa iperproduzione normativa né siamo in grado di dire chi, precisamente, sia l’artefice di ogni decisione presa, dal momento che gli organi legislativi tradizionali, all’interno delle singole nazioni, appaiono a loro volta depotenziati se non delegittimati.
Insomma, l’impressione è che prevalga il caos. Ma voluto da chi, e perché?
Ricerche sociologiche e politologiche, in materia, non mancano. La filosofia, invece, sembra latitare. E allora è benvenuto un libro come «I padroni del caos» (Liberilibri, 528 pagine, 20 euro), nel quale Renato Cristin, professore di ermeneutica filosofica all’Università di Trieste, individua un percorso di riflessione spiegando chi, a suo giudizio, sta all’origine della situazione europea attuale e quali sono le linee lungo le quali questi «padroni» si muovono.
La tesi di fondo è che le identità nazionali, «come strato profondo di una civiltà e di una cultura», siano state sottoposte a un progressivo logoramento in nome di due miti paralleli, quello dell’integrazione e quello del superamento delle nazionalità. Il tutto non già per favorire un federalismo accettabile e anche auspicabile, ma allo scopo di legittimare un «funzionalismo accentratore», tipo «politburo di sovietica memoria», che non solo rivendica per sé il diritto di decidere, ma alimenta una retorica che, mediante parole d’ordine come multiculturalismo, accoglienza e apertura, di fatto mira ad annullare l’identità nazionale, quasi fosse un peccato originale dal quale emendarsi. Da qui tutto l’armamentario retorico del politicamente corretto, che si trasforma in autoflagellazione, autocensura, autonegazione, come se avere a cuore la propria identità fosse un marchio di infamia.
A questo punto si sarà già intuito chi sono, per Cristin, i padroni del caos e dove stanno di casa: sono in primo luogo gli euroburocrati di Bruxelles, di quell’Unione europea che, tradendo gli ideali originari dei padri fondatori come Adenauer, De Gasperi e Schumann, i quali credevano nell’autonomia nazionale e la mettevano al servizio della cooperazione, stanno attuando un progetto tecnocratico marcatamente antinazionale, con il fine di mortificare ogni tipo di identità disperdendola all’interno di una multiculturalità che è la maschera dietro la quale si nasconde il dispotismo.
All’interno di questo quadro, animato da molti altri soggetti, anche dell’economia e della finanza, Cristin non manca di segnalare la presenza di un attore che, «in assenza di contromisure, potrà diventare protagonista», con tutta la sua carica storicamente estranea all’identità europea. Questo attore è l’islam, che ovviamente gode dei frutti della sempre più allarmante e manifesta debolezza interiore dell’Europa e punta a realizzare il suo progetto di sempre: la conquista.
Burocratica, rigida, occhiuta, dispotica, sprezzante e costosa, l’Unione europea è oggi una macchina pensata per imporre il melting pot culturale ed etnico, «un crogiuolo in cui le diverse entità non vengono fatte coesistere, ma vengono pian piano soppresse in favore di una inquietante (e, a guardare bene, minacciosa) alterità. I modelli vengono imposti dall’alto, con un metodo che ricorda più l’oligarchia orientale che le democrazie liberali occidentali, anziché essere costruiti dal basso in base alle esigenze dei singoli ambiti che li devono di fatto praticare».
Lungo questa via non sono soltanto le identità nazionali a risultare mortificate. La stessa identità europea è mortificata, in nome di un dirigismo tecnocratico tanto freddo quanto implacabile. Abbiamo così una struttura di tipo non federativo ma imperiale, nella quale ben ventisette nazioni, senza contare la moltitudine di immigrati da altri paesi e culture, si ritrovano appiattite, sottoposte a un potere che non è tanto politico quanto regolamentare, il che lo rende ancora più simile a un Grande fratello distaccato e inesorabile. Così non è neanche possibile individuare un vero responsabile, perché la burocrazia è senza volto. Il quadro è dominato dall’apparato procedurale: ciò che conta non è più la responsabilità storica, ma l’opportunità contingente.
È, in parole poverissime, quella che si definisce l’Europa senz’anima. Senz’anima e dunque senza radici né prospettiva. E ovviamente senza fede religiosa, perché l’altro grande mito alla base di questa costruzione è l’idea che tutte le fedi debbano coesistere su base paritaria, come se fossero uguali, senza tener conto di ciò che le distingue. Una tolleranza che, quanto più è sbandierata, tanto più nasconde e alimenta un nichilismo di fatto.
Scrive a un certo punto Cristin: «Si tratta dunque di salvare l’Europa dall’abbraccio mortale dei sedicenti europeisti». Una valutazione troppo severa? Un giudizio impietoso?
Qui l’analisi dell’autore prende il largo, fino a individuare nell’asettico ma irriducibile potere burocratico esercitato dai padroni del caos i frutti di quel desiderio di totalitarismo che un pensatore liberale come Jean-François Revel aveva colto benissimo, e in largo anticipo, nelle pulsioni rivoluzionarie sessantottine. Cristin cita anche il celebre saggio di Bernard-Henry Lévy, «La barbarie a visage humain» («La barbarie dal volto umano»), del 1977, nel quale il filosofo francese vedeva la tecnocrazia totalitaria come erede dello stalinismo. Né manca un esame accurato delle due grandi malattie europee, l’«oikofobia» e la «xenofilia»: da un lato l’odio per se stessi e per la propria casa, dall’altro l’amore per lo straniero, miscela che conduce all’autosoppressione, come si vede bene nelle nostre società segnate da tassi di natalità negativi e inequivocabili segnali di decomposizione morale.
È a questo punto che Cristin introduce una riflessione sulla teoria della sostituzione, che prevede il rimpiazzo di un popolo con un altro e che Renaud Camus illustra nel suo «Le changement du peuple», dove si spiega che i flussi di popolazione, quando sono così ingenti, conducono non soltanto a innesti etnici su una pianta preesistente, ma a un vero e proprio cambiamento di civiltà. E sentite un po’ che cosa immaginava, a questo proposito, nel lontano 1973, Jean Raspail, esploratore e scrittore, nel romanzo apocalittico «Le camp des Saints»: l’arrivo sulle coste francesi di un milione di immigrati, fenomeno che i governanti di quell’epoca futura, con l’aiuto dei professionisti del pronto soccorso, fanno passare per ineluttabile e di fronte al quale ai francesi non resta che fuggire. Ma non è tutto. Raspail immagina anche che il papa di quel tempo sia un pastore buono e accogliente, un sudamericano «scelto dai cardinali come papa innovatore, in nome della Chiesa universale», un uomo che «da vescovo faceva in Europa l’agitatore col racconto delle miserie del Terzo mondo» e che, di fronte alle obiezioni di chi temeva l’estinzione della civiltà europea, rispondeva che «solo la povertà è degna di essere condivisa» e «se non daremo tutto, non avremo dato nulla». Se non che nel romanzo di Raspail i nuovi arrivati non pensano affatto che la terra sulla quale sono sbarcati appartenga ad altri: per loro è semplicemente terra di nessuno. E la conquistano. Impressionante, poi, è quanto scrive Raspail nella prefazione all’edizione del 1985, dove precisa che a favorire l’invasione furono alcuni precisi fattori: «Forte pressione psicologica delle associazioni umanitarie, estremizzazione del vangelo sociale da parte di alcuni esponenti religiosi, falso irenismo delle coscienze, rifiuto di affrontare la verità e così via».
Eccoci qua. Come spesso succede, la letteratura ha anticipato la realtà. Benvenuti nell’Europa dominata dall’idea di integrazione. Dove, tuttavia, come argutamente annota Cristin, gli appelli all’integrazione riguardano molto più gli europei che gli immigrati.
Ora è chiaro che di fronte ad argomentazioni di questo genere la replica più semplice e immediata consiste nel pronunciare una parola che è un’accusa: «Razzismo». Ci sarà, naturalmente, anche chi farà notare che la lettura di «Le camp des Saints» è stata raccomandata di recente da Marine Le Pen, e che Steve Bannon, consigliere strategico di Donald Trump, ha dichiarato di essere un appassionato lettore di Raspail. E ci sarà chi ricorderà che lo stesso Raspail (eccone una frase fulminante: «Sono un difensore di tutte le razze minacciate, compresa quella bianca») è stato accusato di razzismo. Cristin tuttavia non fa una piega: «Non c’è alcun razzismo nelle idee identitarie», ma «c’è semplicemente la difesa strenua dello spazio di libertà e di esistenza connesso con la propria identità».
A proposito di Chiesa cattolica e papi, occorre dire che Cristin non si limita a riferire quanto fu partorito dall’immaginazione profetica di Raspail, ma si occupa anche del papa reale, Francesco. Sotto il titolo «Pauperismo e comunismo: la teologia della sovversione e della rinuncia», l’autore traccia un quadro alquanto urticante dell’insegnamento del papa argentino. Energico contro il sistema occidentale, sbilanciato verso l’apertura a profughi e immigrati, poco incline a porsi il problema dell’identità europea, a giudizio di Cristin il messaggio bergogliano aiuta il processo di autocolpevolizzazione dell’Occidente e alimenta la retorica dell’accoglienza evitando di fare chiarezza circa la posta in gioco. Citando Loris Zanatta, forse il nostro massimo studioso di America Latina, Cristin conclude che quello di Bergoglio è un populismo antiliberale e afferma che il papa, nei fatti, contribuisce allo sbandamento europeo. Naturalmente molti lettori non saranno d’accordo, ma Cristin rivendica orgogliosamente il diritto-dovere del filosofo di interrogarsi.
Ora, passando alla «pars costruens», la domanda è: ci sono soluzioni in grado di salvaguardare l’identità europea dagli assalti che le arrivano dall’interno e dall’esterno? Cristin guarda al pensiero liberal-conservatore, del quale si considera rappresentante e interprete, e afferma che la necessità e l’urgenza di una reazione sono indiscutibili. E quando parla di reazione l’autore attribuisce alla parola un preciso significato filosofico e politico: anche se alle nostre orecchie suona male, occorre proclamarsi reazionari. Vuol dire riattivare tutte le «energie identitarie sepolte da decenni di denigrazione della soggettività europea e di censura delle sue facoltà». La parola reazione, quindi, ha in questo caso il senso di rigenerazione: occorre rivalutare e rivitalizzare tutto ciò che è genuinamente nazionale, tradizionale, identitario, politico, respingendo ciò che è forzatamente sovranazionale, superficialmente progressista e terzomondista, dirigista, burocratico. Ovviamente la ricetta di Cristin è molto più articolata di quanto si possa riassumere in poche righe. E presenta numerosi aspetti che andrebbero discussi, perché non sempre la linea di demarcazione tra recupero dell’identità e nazionalismo è ben chiara, e bisognerebbe anche interrogarsi su come rivitalizzare la tradizione senza cadere in atteggiamenti nostalgici che condannano all’emarginazione.
Da parte nostra, riflettendo sulle celebri parole di Arnold Toynbee, secondo il quale «le civiltà muoiono per suicidio, non per omicidio», osserviamo che in tempi di pensiero unico, di mimetismo culturale, di conformismo dilagante e di ben scarsa propensione a interrogarsi sui dogmi imposti dai padroni del caos, il libro di Cristin, comprese le sue parti più discutibili, rappresenta una bella scossa. Per il cervello, per il cuore, per l’anima.
Aldo Maria Valli