Con il saggio “I padroni del caos” (Liberilibri) il docente universitario triestino indaga con una rigorosa metodologia filosofica tutte le facce della decostruzione della civiltà europea e occidentale. E propone un paradigma liberalconservatore
Avevamo incontrato Renato Cristin nella nostra recensione all’edizione italiana deL’antirazzismo come terrore letterario (Liberilibri, Macerata, 2016, pp. XL-44, € 15,00) di Richard Millet. In quel caso ne aveva curato la pubblicazione. Non solo. La sua Prefazione al testo del noto pensatore francese (A partire da Richard Millet, colpevole di scrivere) consisteva in un ampio, prezioso contributo personale.
Stavolta siamo lieti di segnalare – e non recensire, vedremo subito perché – la sua nuova fatica: I padroni del caos (Liberilibri, Macerata, 2017, pp. 456, € 20,00). Una Premessa e otto capitoli (alcuni dei quali sono rielaborazioni di un saggio precedente) coi quali l’autore decifra, tassello per tassello, il meccanismo politico-economico-culturale globalista che ci sta sovrastando e cambiando. E mica tanto lentamente. Una grande macchina mondiale, spietata e feroce. Un libro talmente ricco e complesso che, come abbiamo appena scritto, è impossibile da recensire sinteticamente a beneficio del lettore. Ogni pagina offre spunti per un’intera analisi. Allora, l’intero volume va letto. Con attenzione. Con pazienza. Per intero. Il (relativo) impegno sarà ripagato dalla soddisfazione di aver colto molto, se non tutto, dell’inatteso sviluppo del globalizzato mondo contemporaneo, proiettato verso la «sostituzione culturale (e progressivamente anche etnica)» dell’Europa e della sua cultura.
Il caos nel quale stiamo già vivendo – ma, via via che il meccanismo andrà avanti, sarà sempre peggio – ha degli ingranaggi complessi, che, tuttavia, ben oliati, lavorano con estrema efficienza. Con una sintesi davvero abbozzata e lacunosa, possiamo dire che i padroni del caos sono: l’Unione europea con la sua tecnoburocrazia incontrollata al servizio del capitalismo liberista finanziario; il “sessantotto-pensiero” con la conseguente totalitaria ideologia unica del “politicamente corretto”; la colpevolizzazione della storia e della civiltà europee; l’imposizione dell’immigrazionismo; la scelta ideologicamente pauperistica e immigrazionista della Chiesa cattolica; la lenta pervasività di un islam fondamentalista, retrivo e intollerante (e non se ne scorgono altre tipologie).
Come si vede, si tratta di un mostro le cui facce possono anche apparire contraddittorie, ma che, nel suo insieme, funziona benissimo. Ogni elemento dell’orrendo coacervo ha un ruolo. E il tutto tende a un fine cui ci si approssima con velocità crescente: la decostruzione-distruzione della civiltà europea per come si è formata, nel corso di più di duemila anni, tra contraddizioni, arretramenti, sofferenze immani, nefandi orrori e soprattutto splendori, grazie ai successivi contributi di Grecia, Roma, cristianesimo, umanesimo e rinascimento, illuminismo, romanticismo, scientismo, ecc. Un’identità che già oggi facciamo fatica a riconoscere. I primi sei capitoli de I padroni del caos, con le conclusioni di ciascuno di essi che rimandano ai contenuti di quello successivo, analizzano con sottigliezza e con una sorprendente ricchezza di riferimenti e di acute riflessioni la realtà che, impostaci, stiamo vivendo. Gli ultimi due formulano proposte per opporsi al nuovo totalitarismo.
Di tutta questa ricchezza di contenuti possiamo solo provare a ricavare una sintesi davvero minima. Nel capitolo 1 (Geopolitica del pensiero: l’europeismo contro l’identità europea) l’autore evidenzia il ruolo centrale dell’Unione europea nella decostruzione del Vecchio Continente. Essa si è tradotta e declinata in incontrollabili supercaste burocratiche e finanziarie, tirannide monetaria, mostruosa proliferazione legislativa e sostituzione dei secolari governi nazionali con un’astratta quanto autocratica governance disprezzo per le popolazioni (e le loro peculiarità nazionali e regionali), che qualcuno definisce già nativi, come i pellerossa destinati all’estinzione. E il Sessantotto col suo variegato apparato ideologico, ha perso o ha vinto? O non è forse uno degli altri elementi del caos? Cristin individua, infatti, una divisione dei compiti nel nuovo ordine globale: «Ai vecchi creatori della rivoluzione permanente il controllo delle idee, ai nuovi gestori degli apparati statali e comunitari il controllo dell’economia, e a entrambi il controllo della società e dell’opinione pubblica».
A scapito del popolo, aggiungiamo noi. Così, il secondo capitolo (Il pensiero dell’altro: neosadismo e imposizione del caos) prova con chiarezza come il pensiero distruttivo di pensatori come Michel Foucault abbia infine prevalso, diventando conformistica ideologia di massa. Alla base di tutti gli intellettuali-politici sessantottini sta la volontà distruttiva del vecchio ordine, in ogni sua declinazione (autorità, stato, religione, famiglia, padre, sessualità, arte, ecc.). Però, ai fini di un nuovo totalitarismo. Insomma, ribellarsi alla tradizione ed essere libertari è un obbligo, ma non verso il nuovo ordine, che è in realtà disordine e caos. Allora subentra la repressione. Il simbolo più pregnante colto da Cristin per rappresentare tale paradosso è il castello del marchese De Sade, tanto amato dai rivoluzionari in quanto rappresentante dell’estrema liberazione «dalle costrizioni e dalle convenzioni», oltre che della sessualità. In realtà, proprio come sta avvenendo oggi in nome del libertarismo, l’universo sadiano raggiunge l’estremo della prigione totalitaria, dell’arbitrio, del disprezzo dell’umano, del nihilismo. Come nella realtà odierna, in Sade la totale, maniacale, organizzazione della vita in funzione del soddisfacimento di ogni desiderio individuale corrisponde al massimo di controllo collettivo, meccanizzazione e riduzione della persona a oggetto da usare. Un incubo.
«La violenza risiede nell’umano, […] nessun sistema ne è immune, [anzi] quello occidentale ne ha forse il minor tasso o almeno il livello più controllato». Tale lapalissiana realtà rammentata da Cristin si scontra con le illusorie e un po’ infantili speranze, circonfuse di “alone magico”, secondo le quali l’altro è buono, migliore, apportatore di liberazione, catarsi e redenzione. Insomma, la salvezza esiste, è facile, è vicina, ma altrove. Sicché idiofobia e oikofobia comportano un odio di sé e un’acritica xenofilia. Da qui l’autocolpevolizzazione e la conseguente necessità dell’espiazione. Tale corrente di pensiero, che nasce col mito del buon selvaggio di Jean-Jacques Rousseau e il relativismo culturale di Michel de Montaigne, ma si sviluppa soprattutto col Sessantotto, è l’argomento centrale del capitolo 3 del saggio di Cristin (Il complesso d’Europa: oikofobia e xenofilia).
Di fronte a qualunque orrore commesso da altre civiltà, ci sarà sempre qualcuno che esclamerà il fatidico “anche noi”. In effetti, lo spirito critico (anche verso se stessi e la propria cultura) è una delle peculiarità della nostra civiltà. Peccato che appartenga appunto solo a essa. Non troverete mai un comune islamico, cinese, indiano, non solo che ammetterà, ma neanche che studierà, le proprie colpe storiche. Il quarto capitolo tratta Multiculturalismo e terzomondismo: la teoria della sostituzione. Non si tratta di complottismo. Già nel 2001 laDirezione popolazione del Dipartimento affari sociali ed economici dell’Onu parla chiaramente di «immigrazione sostitutiva» ai fini di far fronte al calo demografico europeo. Per fare accettare l’immigrazione di massa, ovvero ciò che Renaud Camus ha definito la «grande sostituzione», è stato dispiegato un vasto apparato culturale e massmediatico. L’ideologia di base è quella multiculturale e terzomondista: “tutte le culture e tutte le religioni sono uguali”, “i migranti sono una risorsa”; “l’immigrazione è necessaria”, “i paesi poveri sono tali a causa del colonialismo europeo”, “è giusto rimediare agli errori del passato”…
Chi, timidamente ma realisticamente, fa notare che la convivenza in piccoli territori di masse di popolazioni di cultura diversa rappresenti un problema è accusato subito di razzismo, xenofobia, intolleranza, ignoranza, chiusura, egoismo. Peccato che tali peculiarità appartengano piuttosto agli altri. Si pensi alle cruente divisioni e guerre tra tribù, clan, famiglie, in buona parte dell’Africa e dell’Asia, o all’islam che taglia corto sugli aderenti alle altre religioni, definendoli tutti «infedeli». Tra questi ultimi vi sono i cristiani. Tuttavia, la Chiesa cattolica, soprattutto sotto il pontificato di Jorge Mario Bergoglio (capitolo 5, Pauperismo e comunismo: la teologia della sovversione e della rinuncia), sembra disinteressarsi del tutto della difesa dell’identità europea, della quale si era infine fatto interprete il predecessore di Francesco I (vedi Benedetto XVI, il papa che difendeva l’Europa).
L’attuale pontificato appare influenzato dalla sudamericana teologia della liberazione, una sorta di commistione di terzomondismo e marxismo. I ripetuti messaggi di Francesco I, con l’esaltazione della povertà e del povero come nobili categorie a se stanti, sembrano prospettare non un innalzamento delle classi misere della popolazione mondiale, ma una generale pauperizzazione del pianeta. Afferma Cristin che per Bergoglio «la povertà non va superata ma conseguita» in quanto condizione del «raggiungimento di uno stadio superiore della vita spirituale e sociale». Una categoria sociale viene trasformata in categoria dello spirito. Pertanto, occorre «terzomondizzare l’Europa». E quale strumento migliore dell’immigrazione indiscriminata, infatti benedetta dal dogmatismo dell’accoglienza? Purtroppo (si fa per dire), l’uomo europeo è abituato alla libertà e al benessere; inoltre, è poco solidale, etnocentrico, sfrutta le risorse altrui, non rispetta l’ambiente… Ormai è talmente corrotto che «non è sufficiente indicargli la via, perché la sua identità si è formata su basi solide e nel lungo periodo, e quindi diventa necessario sostituirlo».
L’autocolpevolizzazione diventa autoannullamento nel caso del rapporto Europa-musulmani trattato nel sesto capitolo (L’islam: l’«altro» più inquietante). Non occorre essere delle aquile per comprendere che la cultura europea e quella islamica sono totalmente incompatibili: «Finché i musulmani restano prima di tutto, e in molti casi soltanto musulmani, nessuna integrazione è possibile». In nome della sharia, agli islamici residenti in Europa (presso i quali è spesso presente la miscela psicoculturale più pericolosa: vittimismo, volontà di riscatto, odio) è consentito trasgredire le leggi dei singoli stati presso i quali vivono. Di più; in nome dello psicoreato dell’islamofobia, non è neanche possibile fare osservazioni su alcun aspetto della loro vita sociale e religiosa. Si sono così già create delle vere e proprie enclave. È ormai l’indigeno europeo che deve integrarsi e non l’immigrato. Tolleranza verso chi è intollerante; repressione verso chi è culturalmente tollerante. Un «razzismo anti-bianco», secondo la definizione di Gilles-William Goldnadel.
Fin qui la definizione dei fattori di disordine. Tuttavia, come abbiamo poc’anzi scritto, negli ultimi due capitoli (Il pensiero identitario: il nuovo reazionarismo e Idiologia: la rigenerazione dell’identità) il lettore del saggio di Cristin si troverà di fronte anche le sue proposte per evitare che il caos prevalga. Come? In primis, con la «riaffermazione dell’identità» e con la «rigenerazione della tradizione». Innanzi tutto, occorre aprire gli occhi, ritornare a guardarsi intorno con semplicità, liberandosi dagli inganni ideologici: vedere la realtà e smascherare così ciò che sta avvenendo, il «totalitarismo angelico» (definizione di Richard Millet) e la sottostante-sovrastante retorica buonista e manicheista. Sapere ciò che siamo: antitotalitari e democratici, liberali e conservatori, liberisti ma antiglobalisti, antinazifascisti e anticomunisti, filoisraeliani e filostatunitensi, alternativi al terzomondismo e all’islamismo.
Occorre recuperare e imporre principi e valori euroidentitari antisessantottini quali «autorità come autorevolezza, disciplina come esercizio dello spirito, tradizione come connessione storica interna di una civiltà, famiglia come nucleo formativo originario, ordine come condizione essenziale dell’esistenza sociale, identità come perno a cui fare riferimento per la comprensione del mondo». Di particolare importanza è la battaglia per le lingue nazionali e per un linguaggio raziocinante e chiaro, per una scuola che davvero insegni, contro l’ignoranza, la tecnicizzazione del mondo, la virtualizzazione della realtà, la dittatura della Rete, il postumano. E neppure secondaria è la difesa della proprietà (anche intellettuale, il diritto d’autore), nel suo potenziale di miglioramento del benessere individuale e collettivo, in contrapposizione al pauperismo, alla annullante condivisione del web, che è anche «dis-propriazione».
È necessario chiarire anche ciò che non siamo e che il nuovo totalitarismo ci attribuisce con significato insultante: alle pp. 341-345 del suo libro Cristin formula un lungo elenco, che riecheggia quello di Eugenio Montale in Non chiederci la parola, e ad esso rimandiamo. È pure indispensabile «sottolineare le differenze non tra colori di pelle ma tra visioni del mondo, tra opzioni di vita sociale, tra diverse concezioni dell’uomo (compresa, s’intende, anche la donna) e della sua opera sulla terra». Allora apparirà chiaro che l’odio dellostraniero non è tanto verso, ma da parte di. Insomma, la proposta di Cristin è un reazionarismo temperato euroidentitario secondo un paradigma liberalconservatore. Una proposta illuminata, tollerante, nobile, generosa, aderente ai tempi che viviamo.
In conclusione, possiamo affermare che I padroni del caos è un saggio di rigorosa impostazione fenomenologica husserliana, con un oggetto unico osservato nei suoi molteplici aspetti secondo varie prospettive. Ricordiamo, infatti, che Renato Cristin (docente di Ermeneutica filosofica all’Università di Trieste, nonché già direttore dell’Istituto italiano di cultura di Berlino e direttore scientifico della Fondazione Liberal) ha curato l’edizione italiana di opere di Edmund Husserl, oltre ad alcune di Martin Heidegger e Hans-Georg Gadamer. La lettura di questo suo nuovo libro costituisce un appassionante viaggio intellettuale e spirituale, alla fine del quale i vari frammenti di luce, che magari avevamo già intuito, prendono forma in una luminosa e sapiente costellazione rivelatrice. Il saggio ha persino un valore estetico, che scaturisce dallo stile, dalle argomentazioni, dalla ricchezza culturale dei contenuti. E ci insegna che, allorquando il presunto “progressismo” conduce a un regresso civile, culturale, sociale, politico, economico, è il reazionarismo a divenire progressista e rivoluzionario.
Rino Tripodi
(LucidaMente, anno XII, n. 141, settembre 2017)