“HANNO RECISO LE RADICI DELL’EUROPA, SIAMO PASSATI DAL COSMO AL CAOS”: DIALOGO CON RENATO CRISTIN
Il problema è sempre quello. Capire cosa sta accadendo. Io faccio la parte della bella lavanderina, che ignora tutto tranne di essere al mondo: non mi fido di chi ha risposte impanate nell’ideologia; non sopporto chi semplifica il problema in un claim pubblicitario, tipo ‘sovranisti vs. globalisti’. Ora. Renato Cristin è professore di Ermeneutica filosofica all’Università degli Studi di Trieste, è, tra l’altro, un raffinato esegeta di Husserl, e per Donzelli, nel 2001, ha firmato un saggio a suo modo profetico, La rinascita dell’Europa, in cui ci si poneva la domanda – da allora ripetuta fino alla follia – “che cosa vuol dire, oggi, essere europei?”.
L’anno scorso, per Liberilibri, Cristin ha pubblicato un libro illuminante, dal titolo che ricorda un livido romanzo di Anthony Burgess, I padroni del caos. In 500 pagine, con provvidenziale chiarezza, Cristin assembla tutti i problemi cocenti del nostro tempo – identità europea, Islam, fenomeno migratorio, libertà sociali e sessuali, neo-pauperismo, capitalismo, sovranismo – senza ‘risolverli’, ma dandoci gli strumenti – cioè, mettendo sale e concetti nella nostra zucca – per comprenderli nella loro profondità. “Aver voluto stroncare le nazioni è stato un errore capitale commesso dai buro-politici europeisti, ignari o dimentichi del fatto che le nazioni europee non sono entità artificiali, ma organismi viventi tanto quanto i popoli che le hanno formate, come insegnava Herder opponendosi a Kant”, scrive Cristin nell’introduzione, ad esempio. Particolarmente interessante – giusto per capire il profilo del discorso – la combutta descritta da Cristin tra Sade, il Marchese che, a braccetto con Marx, è l’artefice della filosofia sessantottina tesa, sadicamente, appunto, a sostituire il Cosmo con il Caos, e Cervantes. “Sade scatena la follia per distruggere la ragione, Cervantes cerca e vivifica la follia per recuperare la ragione. Impossibile trovare in Don Chisciotte qualcosa anche di solo vagamente analogo alla frase con cui il libertino Dolmancé gioisce delle sue scelleratezze: «non mangio mai meglio, non dormo mai più tranquillo di quando mi sono macchiato sufficientemente di quelli che gli sciocchi chiamano crimini»… Sade, giacobino, lotta contro l’autorità, sia quella dell’ancien régime sia quella napoleonica, che lo imprigiona; Cervantes, cattolico, lotta contro i musulmani per difendere la tradizione europea”. La ‘liberazione’ sessuale e sociale, in realtà, ci ha reso schiavi delle nostre pulsioni, soli, frustrati: non più uomini con un destino – piccolo o grande che sia – ma consumatori con un portafogli, da sbandierare quando andiamo in deficit di ego. Il libro di Cristin non si può ridurre nel format di un articolo: per questo ho preferito che fosse lui a raccontarlo, esplicitando alcuni passaggi decisivi. La sua ricetta, in fondo, in un libro pieno di agudeza (“i veri guerrafondai si sono camuffati da pacifisti, senza però perdere l’antico vizio dell’odio, anzi, rinnovandolo e adattandolo alle esigenze del presente, mascherandolo da amore incondizionato per l’altro, purché non sia l’avversario politico, al quale viene negato lo statuto di «altro» e affibbiato quello di malefico”), è quella di guardare le cose come sono, faccia dentro faccia, sfacciatamente, senza filtri ideologici. “Si tratta, diceva Husserl, di guardare, semplicemente di guardare, anche se lo sguardo immediato deve essere accompagnato da una teoria che lo sostenga nel suo movimento estrinseco e nella sua esplicitazione. In questo caso, guardare direttamente significa cogliere l’essenza delle cose senza i veli delle opinioni, dei dogmatismi o, peggio ancora, degli strumentalismicon cui una propaganda di tipo immigrazionista, anti-identitario e sostituzionista cerca di sviare l’attenzione e confondere il giudizio degli individui e, quindi, dei popoli”.
Nella sua analisi lei afferma: siamo passati dal ‘cosmos’ al ‘caos’. Perché? Assecondando quale progetto, quale idea di vita?
Assottigliando e comprimendo il nucleo identitario, la casta politico-burocratica che attualmente regge le istituzioni europee sta generando il caos. Sul piano europeo, gli ordinamenti, termine con cui si è sempre designato l’insediarsi di forme di governo della società, sono oggi sviliti a forme di proliferazione delle norme e di regolamentazione delle pratiche, a prescindere dalla qualità di entrambe. Alla burocratizzazione delle strutture si accompagna la narcotizzazione delle coscienze. Questo è uno dei sintomi più preoccupanti dell’attuale passaggio al caos, perché svela un’intenzione e una conseguenza: l’intento di modificare fin nel profondo la visione del mondo che, pur fra mille disastri, ha sempre guidato la storia europea; e l’effetto di estraneazione dell’uomo europeo rispetto a quella visione e alla propria identità: l’europeo deve diventare altro. Poiché per tale scopo l’abbattimento dell’identità è la priorità, e poiché ogni identità è strettamente connessa con un ordine, la sua dissoluzione implica la scomparsa dell’ordine, cioè l’avvento del caos.
Certo, non si può ridurre il complesso rapporto storico fra identità e ordine a una semplice equazione formale, e tuttavia possiamo schematicamente dire che quanto più l’identità (intesa sia come identità generale dell’Europa sia come identità delle sue nazioni) viene compressa, tanto più si produce disordine. Poiché infatti l’identità è la colonna vertebrale dell’ordine, il suo indebolimento porta con sé, inevitabilmente, il disordine. Il caos di cui parlo non è soltanto sociale, cioè la progressiva degradazione (in vista di una dissoluzione) delle forme di vita tradizionali che avrebbero potuto benissimo assorbire le pur gigantesche innovazioni in tutti i campi della conoscenza e della vita, ma che essendo un ostacolo al progetto di sostituzione dell’identità con altro, dovevano essere demolite. Il caos che vedo è mentale, risiede cioè nella mente europea (e nelle singole menti degli europei), nella sua mancanza di orientamento e nella sua incapacità di distinguere ciò che è valido, nella sua deculturazione, nella perdita del senso della proporzione, nella perdita di coscienza storica e nell’abbandono della propria autorità culturale, nell’annichilimento della sua identità e nella conseguente volontà di autoflagellazione come conseguenza del senso di colpa che le è stato subdolamente inculcato. E potremmo continuare a lungo in questo elenco di segni del caos insediatosi nella coscienza europea.
Dopo secoli di affinamento della mente occidentale, di perfezionamento della psicologia, intesa come campo d’indagine e come disciplina stessa, di crescita della coscienza morale e di arricchimento di quella gnoseologica, oggi non riusciamo a distinguere non solo ciò che ha valore da ciò che è da cestinare, ma nemmeno il bene dal male. Bene e male sono diventati la stessa cosa. Ci viene insegnato che l’io e l’altro sono lo stesso. Con l’indifferentismo al potere, la negazione dell’identità è una logica conseguenza. La perdita della capacità differenziante che caratterizza la nostra epoca è anche una premessa essenziale all’instaurazione in Europa dell’uomo nuovo teorizzato dal marxismo, vagheggiato dal sessantottismo, auspicato dalla teologia della liberazione e dall’attuale guida della Chiesa, immaginato dai teorici della liquidità, non dannoso agli occhi degli squali della finanza speculativa e certamente programmato dagli ideologizzati burocrati dell’ONU. L’uomo nuovo: ritorna l’incubo che speravamo dissolto con il crollo del comunismo, e si ripresenta con maggior forza, perché viene dall’interno del mondo occidentale.
Trasposta sul piano continentale, la «chiusura» che trent’anni fa Bloom vide nella «mente americana» diventa confusione, commistione generalizzata di tutto con tutto, che attraverso una crescente schizofrenia prelude a una esplosione, a una follia delle cui conseguenze non si riescono a vedere oggi i dettagli, ma che si può prevedere sarà devastante. Ne consegue un multiculturalismo talmente spinto da diventare caos moltitudinario, spazio dell’indistinto assurto a regola di relazione, di azione e di pensiero. Qui scompare la dialettica che reggeva l’interculturalità intra-europea e che faceva dell’identità continentale una polifonia, malgrado la lunghissima sequenza di guerre che l’ha stressata fino all’estremo e proprio dalla quale si deduce quanto tale identità sia stata (e tutt’ora sia) forte, se ha appunto potuto resistere a guerre, a odii e lacerazioni così devastanti.
In un momento della sua riflessione, tesa a identificare ‘i padroni del caos’, lei scrive che costoro sono frutto della “convergenza fra social-democrazia e cristiano-popolarismo, e dalla proliferazione di quelle organizzazioni che si de- finiscono non-governative, e che sono socialisteggianti, cattolicheggianti, pacifistiche, caritatevolistiche e immigrazioniste, che fanno riferimento all’ONU. Da qui è sorto il caos che i veri padroni attuali dell’Occidente (come pure di gran parte del meridione del mondo) stanno facendo crescere tentando, più o meno, di governare”. Ci spieghi meglio. Chi dice di fare il bene, ha tagliato i ponti con il Bene?
Prima di risponderLe, mi permetta di fare una deviazione. C’è stata una fase, nella storia delle istituzioni europee, in cui le gigantesche devastazioni delle due guerre mondiali provocarono una reazione positiva ed una negativa: la prima rivolta a smussare gli elementi di contrapposizione fra le varie identità nazionali, senza con ciò comprimerle né tanto meno snaturarle; la seconda invece protesa a integrare queste identità intervenendo però coercitivamente sui loro profili e, quindi, tentando di superare l’idea stessa di nazione. Quest’ultima linea di intervento è risultata vincente, perché più adatta ad assecondare la tendenza che le istituzioni eurocomunitarie stavano assumendo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, la tendenza cioè ad accentrare la gestione incrementandone gli apparati. Un progetto federalistico era stato affiancato e poi estromesso da uno funzionalistico. La cessione di sovranità, che se limitata e ben usata può essere un utile mezzo di collaborazione fra gli Stati e le istituzioni europee, è diventata lo strumento per indebolire i singoli Stati e, cosa assai più grave, per svellere l’idea di nazione dalla coscienza degli europei. Così l’Europa è diventata Unione Europea, la storia è diventata cronaca, gli scopi più o meno immediati hanno espulso il telos spirituale che anima la storia europea da duemilaecinquecento anni. Pietrificato in una struttura politico-amministrativa, lo spirito europeo è stato obliato, riposto sugli scaffali delle biblioteche e nelle teche dei musei. Lo spirito è diventato lettera, ma nel senso più corrivo del termine: fiumi di protocolli, trattati, documenti, fino alla carta straccia. Peggio ancora, lo spirito è diventato chiacchiera. Lo spirito, in quanto soffio dell’anima europea, è stato rimosso, perché esso sventola di fronte a tutti l’identità dell’Europa, ponendo tutti dinanzi alla domanda: che ne è di questa identità? Una domanda da aggirare, anzi, da eliminare, perché la parola identità doveva essere bandita dal lessico eurocomunitario. Inizialmente e poi sempre più timidamente, il termine si poteva ancora trovare nelle formulazioni ufficiali, soprattutto in quegli opuscoli dagli intenti palesemente propagandistici, poi è sparito del tutto. Oggi è un concetto che, nella retorica europeistica, viene designato negativamente, come un ostacolo all’integrazione e un rigurgito di nazionalismi. Dello spirito è meglio non parlare, perché esso evoca l’identità, della quale è oggi fatto divieto assoluto di parlare.
Ma ho divagato troppo. Curvando rapidamente sul tema, direi che, forse anche con un certo grado di inconsapevolezza, sia da parte di chi lo produce sia da parte di chi lo subisce, lo scivolamento verso quello che chiamerei il grado zero della coscienza è diventato sempre più veloce, una valanga che pur in modo poco eclatante sta travolgendo le «figure» (per dirla con Hegel) della coscienza europea, fino a ridurle a simulacri di un’identità spirituale e culturale forte, la più potente che la storia umana abbia conosciuto. Quello che Lei definisce «il Bene» sembra ormai confinato nella ridotta filosofica platonica, nelle pieghe del pensiero della tradizione, di un pensiero che, a furia di essere aggredito, decostruito e deriso, fa ormai fatica a esprimersi e, quindi, non riesce più non solo a prefigurare i movimenti della civiltà, ma nemmeno a indicare soluzioni a breve che siano con esso coerenti. Sì, Lei ha ragione, il buonismo ha sostituito il bene: chi oggi predica il bene è, per lo più, infettato dal germe del buonismo e usa il concetto del bene quasi esclusivamente per marchiare con l’accusa di razzismo (o di odio verso l’altro) coloro che sostengono tesi identitarie non conformi al politicamente corretto.
Bruciati i ponti con la propria origine, con la propria tradizione, la navicella Europa si sta avviando verso territori incogniti, sui quali potrà forse ancora lanciare qualche bagliore della propria grandezza, ma che in definitiva fanno intravedere un mesto declino. Quello sconvolgimento che alcuni pseudopensatori del nostro tempo e delle nostre cronache definiscono epocale, e che a loro dire riguarderebbe il Sud del mondo, non rende ineluttabile, come ormai molti ritengono, l’invasione dell’Europa da parte di masse incontrollate provenienti da tali aree. Insomma, la «sostituzione» dei popoli europei (come dice Renaud Camus) non è inevitabile, ma più semplicemente è stata ordita, anche senza intenzioni particolarmente malevole (e la cosa non è un’attenuante ma un’aggravante, perché denota una coscienza giunta ormai, nietzscheanamente, al di là del bene e del male, una visione indifferente e indifferenziata, tutta pragmatica e perciò extra-morale oltre che extra-politica), dagli ideologi-burocrati dell’ONU, della pletora di sotto-organizzazioni ad essa legate e da grandi gruppi di speculatori finanziari che farebbero ribrezzo ad Adam Smith e che, oggettivamente, sono una patologia del capitalismo, delle sue idee fondative e della sua realtà storica.
Quali sono, in sintesi, le radici dell’Europa, ma soprattutto cosa dovrebbe essere l’Europa, che ora pare un Frankenstein burocratico?
Le radici dell’Europa sono a mio avviso analoghe a quelle dell’albero della filosofia raffigurato da Descartes, le cui radici sono costituite dalla metafisica. All’origine dello spirito europeo ovvero dello spirito occidentale c’è un’essenza metafisica che non si riscontra in nessun’altra civiltà o cultura, e che ha reso l’Europa e quindi l’Occidente più inclini di qualsiasi altra cultura a riconoscere il valore fondante del nesso fra verità e libertà. In questa prospettiva, evocare il nucleo ebraico-cristiano che si è insediato sulle fondamenta greco-romane e che ha accompagnato lo sviluppo del pensiero europeo moderno non è un esercizio retorico, ma è oggi una necessità storico-politica oltre che spirituale. L’origine non è soltanto il luogo di nascita, bensì determina anche il cammino e il destino di chi da quella origine è sorto, e perciò l’origine dell’Europa (le sue radici) va non solo compresa e, come dicono anche i progressisti politicamente corretti, valorizzata, bensì anche riproposta (e questo i progressisti non dicono), perché è dal recupero dell’origine che possiamo determinare la sintonia o meno del futuro dell’Europa con il suo telos, con la sua finalità originaria.
Di fronte a questo identitarismo (o più precisamente «euro-identitarismo») che fa perno sui concetti di origine e di proprietà (intesa come ciò che è proprio, in questo caso ciò che è proprio dello spirito e dei popoli dell’Europa), si ergono montagne di ostacoli, di critiche e di demonizzazioni, che hanno tutte la funzione di denigrare qualsiasi accenno di pensiero identitario e di impedire che tale pensiero possa essere accolto, anche soltanto conosciuto dai cittadini, dagli europei. Una cortina fumogena viene stesa per mascherare l’espropriazione che gli europei stanno subendo: bisogna cancellare le nazioni, aprire le frontiere ai migranti africani e medio-orientali, far tacere il cristianesimo e dare voce all’islam (perché gli islamici possano integrarsi, figuriamoci), ridurre la tradizione a sequenza museale e passare ad altro (all’altro da noi, appunto, a qualsiasi cosa purché sia altra), trasformare il continente in un contenitore, in un recipiente (nel senso letterale del termine: ciò che riceve) neutro e pronto per essere riplasmato, sul medio periodo invaso e su quello lungo conquistato.
I ciarlatani che ancora tentano di farci credere che l’Europa sia la sua deformazione burocratico-istituzionale si trovano in buona compagnia con quelli che, apparentemente in contrasto con i primi ma sotterraneamente cooperando con essi, tentano di convincerci che per conquistare il futuro bisogna abbandonare i vecchi percorsi, liberarsi dal peso della tradizione e quindi recidere quelle antiche radici. No, questa è la via dell’indistinzione, delle commistioni e delle ibridazioni, una delle vie del caos. Sul piano istituzionale, il mostro di Frankenstein che Lei evoca è precisamente il caos generalizzato e diffuso, il quale è il risvolto di verità di una sedicente gestione razionale che si fonda principalmente sull’iper-regolamentazione, che in molti casi si orienta su linee contrarie agli interessi dell’Europa, sia sul piano storico sia su quello contingente.
“Remissiva nei confronti dell’islam ma energica contro il sistema occidentale, la Chiesa ora guarda alla teologia della liberazione”. Lei dedica pagine critiche alla ‘reggenza Bergoglio’ della Chiesa. Mostrando che le ambiguità, in seno alla Chiesa, nascono con il Vaticano II. Ci spieghi che forze si agitano sotto il ‘Cupolone’. E quali obbiettivi perseguono.
Precisato che le linee di forza lungo le quali si muove la strategia vaticana sono molteplici e per lo più sotterranee, poco note ai non-specialisti e certamente non conosciute da me, una cosa è evidente: un’analisi documentale e una conseguente ermeneutica testuale mostrano inequivocabilmente che papa Bergoglio ha portato sul suolo europeo la teologia della liberazione, inculcandone nei cristiani i cardini teorici, che contengono una visione del mondo anti-occidentale (e quindi anche anti-europea se intendiamo la parola Europa nel senso tradizionale e non in quello istituzionale), terzomondista e pauperista che si esprime nell’idea teologico-liberazionista di «sostituire l’uomo nord-atlantico» (occidentale, appunto) con un’umanità nuova (versione cattolica dell’idea marxista-leninista dell’uomo nuovo del comunismo). Questa visione teologico-politica, che il pontefice ha adottato, è di fatto un supporto, e di quale portata, al progetto che lavora per la destituzione dell’identità e la sostituzione dei popoli europei. La mia critica a papa Bergoglio non entra nel ginepraio dottrinale, che, al di là di una legittima ma generica presa di posizione di ciascuno, dovrebbe essere lasciato agli specialisti, e si limita alla dimensione teorico-politica o ideologica della sua predicazione e dei suoi testi. Le implicazioni, absit iniuria verbis, politiche della sua visione rappresentano infatti non tanto una sfida quanto una minaccia all’identità europea, perché non pongono quest’ultima dinanzi ai propri paradossi o a possibili contraddizioni, bensì la indeboliscono e la espongono a un’aggressione che ha già numerosi attori e che beneficia ora anche di questo attacco da parte cattolica o meglio vaticana. Una diretta conseguenza di questa visione terzomondista e, mi passi il termine, uomonuovista (rivolta cioè alla costituzione di quell’uomo nuovo che ho ricordato poco fa e che rappresenta un obiettivo etico-politico della teologia della liberazione), è l’insistenza e la frequenza con cui Bergoglio esorta gli italiani, gli europei (ma in generale tutti i popoli del mondo) ad accogliere i migranti, a spalancare le porte alla crescente marea di persone che premono per arrivare in Europa.
Sessantotto. Lei opera una sintesi efficace spiegando che nel ’68 convergono, insieme, il Marchese de Sade e Marx. Però, la grande liberazione – sessuale e sociale – si muta in prigionia, in totalitarismo della libertà. Ci spieghi meglio.
Marx e Sade sono le due figure chiave della struttura teorica sessantottesca: il primo connesso con la liberazione sociale, il secondo con quella sessuale. Ne troviamo una buona sintesi in Foucault, attento critico della violenza che il potere e le sue istituzioni coercitive, dal carcere al manicomio, dalla scuola alla famiglia, esercitano sugli individui e sulla società, ma al tempo stesso appassionato apologeta del pensiero sadiano, il quale, come è noto, afferma la libertà assoluta dell’individuo, che trova il suo culmine nell’infliggere sofferenze traendone godimento. Il fatto che questa vagheggiata liberazione dell’individuo e dei gruppi, della politica e del desiderio, liberazione generale e non solo generazionale, si trasformi, come Lei osserva, in prigionia, è solo apparentemente un paradosso, perché alla base del pensiero sia marxiano sia sadiano c’è un nucleo coercitivo e oppressivo che nel primo caso conduce alla sottomissione degli individui agli obiettivi del comunismo, e nel secondo porta alla schiavitù appunto sadicamente realizzata. Quello che Lei chiama «totalitarismo della libertà» rappresenta l’innesto di questi due elementi sessantotteschi nel meccanismo di produzione materiale e culturale che governa oggi il mondo occidentale. Ma questa ibridazione avviene per vie sottocutanee e per dispersione, diffondendosi in molte direzioni e agendo quindi in molti ambiti, raggiungendo anche i più nascosti luoghi della società e dell’esistenza, e rappresenta una patologia del sistema liberaldemocratico e del suo dispiegamento socio-produttivo, perché è una mutazione del virus marxista-sadista all’interno del corpo sociale tradizionale dell’Occidente.
Come dal totalitarismo marxista-sadista non c’è via d’uscita, se non quella della sua confutazione teorica e della conseguente eliminazione concreta, così da quello instaurato dall’agglomerato ideologico politicamente corretto, in cui coesistono dirittismo e coercitivismo, si può uscire solo reintroducendo lo spirito originario – e autentico – della libertà che è nato nel pensiero occidentale ben prima delle sue deformazioni o dei suoi paradossi moderni e che si è manifestato nel pensiero greco, dalla socratico-platonica «cura dell’anima» come esito della liberazione dalla prigionia della caverna, all’aristotelica virtù come sintesi fra ragione e bene. La mostruosa coppia Marx-Sade è una delle basi su cui si regge il potentissimo paradigma del politicamente corretto che oggi domina la scena immateriale europea, e io non ho dubbi sul fatto che tale sia una sorta di «totalitarismo angelico» (per usare un’espressione di Richard Millet), un vangelo del buonismo che imbriglia le dissonanze o, come si diceva un tempo in riferimento al totalitarismo sovietico, le dissidenze, per imporre schemi e modi di pensare strumentalmente finalizzati a che gli europei accettino l’annullamento dell’identità e lo vedano come un fatto positivo.
Il «totalitarismo della libertà» di cui Lei parla è connesso con le strutture del sistema occidentale nel suo insieme, ma non corrisponde all’idea di libertà che troviamo nelle teorie da cui tale sistema è nato e non coincide in senso logico con il sistema capitalistico. Criticare fino in fondo l’anomalo ma ferreo totalitarismo politicamente corretto non implica una critica radicale del capitalismo. Vorrei perciò anche chiarire un possibile equivoco: la mia teoria non ha nulla a che vedere con i molti, talvolta affannati e spesso confusi tentativi di interpretare la realtà attuale come spinta al superamento del sistema economico-politico capitalistico e come occasione per far rientrare dalla finestra quel marxismo che era stato cacciato dalla porta principale della scena politica e abbastanza emarginato sulla scena culturale. Il mio «euroidentitarismo» rappresenta il recupero dei fondamenti originari del pensiero occidentale e, all’interno di ciò, anche dei presupposti teorici del sistema economico-politico della contemporaneità occidentale. Detto bruscamente: non c’è alcuna alternativa di sistema al capitalismo, ma solo la ricaduta nel pantano ideologico marxista o in avventure neo-comunistiche. Anche questo è un segno del caos: che da destra (o se vogliamo dall’area del centrodestra) si prendano come suggerimenti positivi tentativi di introdurre surrettiziamente elementi del marxismo per criticare la realtà attuale è un indizio di cedimento mentale, di debolezza concettuale e una premessa per ibridazioni teoriche che possono portare soltanto danni alla destra e vantaggi al marxismo, che può entrare subdolamente nel pensiero di destra (insisto: centrodestra) e rinascere parassiticamente grazie alla sventatezza della destra stessa. Il marxismo resta un avversario non solo del nostro sistema economico, ma anche dei fondamenti identitari della spiritualità europea. I neomarxismi sono oggi un pericoloso cavallo di Troia che sbadatezze politiche o fallacie teoriche rischiano di portare dentro le mura della nostra identità. Non conservare la differenza tra visioni del mondo, tra cui spicca sul piano politico quella fra destra e sinistra, significa infatti consegnare, nuovamente, al sinistrismo (in tutte le sue numerose forme e varianti) la guida nell’elaborazione culturale e nell’articolazione sociale. E dal punto di vista teorico ritengo che i vari tentativi di eliminare queste differenze siano tra i più preoccupanti indizi che il caos sta trionfando.
Islam. “Se non ci si libera del ricatto ideologico dell’islamofobia, si finirà per soccombere”. Impossibile una congiunzione tra Occidente e Islam? Perché?
L’islam è ciò che ho definito «l’altro più inquietante», perché esprime un fondamento antitetico rispetto a quello della civiltà occidentale, non solo rispetto alle forme attuali della società secolarizzata, ma anche nei confronti delle strutture originarie del pensiero occidentale, della sua metafisica e della sua politica, della sua impostazione culturale. Questa antiteticità non può essere affrontata con la dialettica hegeliana, come se fosse appunto un secondo momento che porta a una sintesi. Tra cultura occidentale e islam non può esserci alcuna sintesi (intesa quest’ultima come autentica conciliazione e unificazione di elementi opposti in una figura nuova), ma soltanto compromessi pragmatici stipulati a seconda delle circostanze, sia perché vi sono alcune differenze, ciclopiche, che non possono essere conciliate e che riguardano la concezione della società, dei rapporti fra uomo e donna, delle libertà individuali, del rapporto con le altre culture e dei doveri verso la storia, sia perché il nucleo dell’islam è opposto a quello del cristianesimo, intesi entrambi non solo come religioni ma in questo caso soprattutto come fondamenti spirituali di una visione e di una costruzione sociale. Il primo ha di mira la sottomissione, il secondo la redenzione. Il primo teorizza la guerra santa (e poi la pace, ma all’interno del mondo islamizzato), il secondo la cooperazione fra nazioni e culture all’interno di un unico mondo. Per il primo, il mondo non islamico è «la casa della guerra», di quella guerra santa appunto che va sempre mossa agli infedeli per conquistare la «casa della pace» in cui regna la legge islamica (che ben sappiamo quali conseguenze sociali porta con sé), mentre il cristianesimo vede il mondo come terreno di evangelizzazione ma anche come spazio multiplo in cui le altre religioni e culture hanno la loro sede, la loro propria e intoccabile casa. Dal punto di vista strategico e di visione del mondo, è difficile, credo, immaginare differenze maggiori.
Alcuni sostengono che la contrapposizione con l’islam si acuisca a causa della mancanza di religiosità dell’Occidente, come se un rafforzamento e una maggiore diffusione del cristianesimo potesse sciogliere la tensione e comporre la frattura. Non è così. Non è la secolarizzazione della società occidentale a rappresentare un ostacolo alla conciliazione con l’islam, perché nemmeno un Occidente che vivesse pienamente nella religiosità cristiana potrebbe adattarvisi, come dimostrano secoli di guerre, per lo più difensive, contro il mondo musulmano o contro suoi spezzoni. La volontà di dominio dell’islamismo è costante e può soltanto essere controllata, arginata, frenata, in una altrettanto costante azione di vigilanza, di reazione all’insinuante o palese attività di conquista di spazi islamizzati, e di affermazione della nostra identità. Senza di ciò, la sconfitta, cioè l’islamizzazione (almeno di gran parte dell’Europa) sarà inevitabile.
Ultimissima. Un giudizio sommario sul nuovo Governo.
La regressione dell’Italia, della condizione generale del Paese e perfino dell’idea di nazione italiana che i governi tecnici e di sinistra hanno prodotto, rappresenta un punto molto basso nella nostra storia recente, a cui un governo che ne riconosca i danni non potrà, credo, non cercare di porre rimedio. Detta la speranza, non si può aggirare il dubbio: un governo di coalizione o, più precisamente, di compromesso riuscirà ad affermare le istanze che la maggioranza relativa degli elettori ha espresso con il voto? Detto altrimenti: questo governo sarà in grado di soddisfare le esigenze dell’elettorato di centrodestra, maggioritario e sempre più a disagio in questa realtà sociale e culturale devastata? L’impostazione extra-ideologica e tutta pragmatica di questa strana alleanza contrattuale potrebbe farci ipotizzare soluzioni precise a problemi concreti, e tuttavia è inevitabile chiederci se questa assenza di visione pre-pragmatica, questa esclusione cioè di un orientamento generale (dettata anche dalle esigenze del compromesso) non costituisca un limite alla chiarezza dell’azione e, soprattutto, un fattore di confusione supplementare. In termini un poco criptici ma sintonizzati sul linguaggio del nostro colloquio, resta da capire se questo è un governo che si opporrà al caos oppure lo alimenterà; se cioè si tratta di un avversario del caos o di un derivato, in parte anche inconscio, del caos stesso.