Testo di Elena Cattaneo - Che ci fa una scienziata tra i volontari a caccia dei resti dei nostri caduti dal Po al fronte russo? - È quello che accadde allora a definire, oggi, chi siamo, dice la senatrice. Che lancia un appello. Contro l’oblio.
Ancor oggi ci sono cittadini italiani che, nel loro tempo libero e a proprie spese, si preoccupano — meritoriamente — di recuperare lembi di un passato doloroso, corpi di uomini dispersi che la Seconda guerra mondiale ha lasciato nel limbo di una fine senza spoglie. Ancor oggi vi sono cittadini dediti a ricercare e completare quei destini individuali che hanno fatto la storia. Perché lo fanno? Con ammirazione e curiosità mi sono trovata ad ascoltare, lo scorso 10 marzo, le parole di Simone Guidorzi e di ventiquattro volontari, tra i quali un elettricista e una laureanda in ingegneria spaziale di Forlì, mentre mi accompagnavano nella visita al Museo della Seconda g1uerra mondiale di Felonica (di cui Guidorzi è direttore e curatore), in provincia di Mantova, in quel punto del fiume Po che verso la fine della guerra era diventato il crocevia delle truppe anglo-americane in avanzata e dei tedeschi in ritirata al nord. Erano proprio lì, dove stavo camminando io. Nel buio sopra a quel terreno, ora florido grazie alla dedizione degli agricoltori, volavano molti aerei.
Alcuni cadevano infilandosi nella terra come lame nel burro, facendo perdere ogni traccia di sé. Ma Guidorzi e i volontari del museo di Felonica e degli altri quattro musei consorziati, con le loro amministrazioni comunali, sono preparati oltre che appassionati. Ottengono da Washington le informazioni dei missing in action e le confrontano con le testimonianze locali. Capiscono che da qualche parte quella loro terra ha inghiottito un aereo alleato. Lo cercano e lo trovano più a est, a Copparo. È sei metri sottoterra. E allora scavano in ogni ora libera. Imparano tecniche archeologiche. I resti dei tre membri dell’equipaggio inglesi sono ancora lì, al loro posto, nella fusoliera dell’aereo. Avevano tra i venti e ventuno anni. Il quarto era un volontario, venuto dall’Australia per difendere i valori della civiltà e della libertà a differenza dell’esaltazione delle folle hitleriane. Li recuperano, li identificano. Da quelle nazioni arrivano le famiglie, alcune autorità. Si salda l’umanità. Il passato si ricongiunge con il futuro. Nell’accettare l’invito a visitare il Museo, attività “eccentrica” rispetto al mio quotidiano di ricercatrice dedita allo studio di una malattia, mai avrei immaginato di poter essere così colpita da storie di uomini e di un momento storico verso cui, pur non avendolo vissuto, sento di avere un forte debito di gratitudine, ben consapevole del “costo” della fortuna e delle libertà che viviamo. Impossibile, quindi, oggi, non pensare anche di far di tutto perché chi è scomparso possa fare finalmente ritorno, trovare la pace, nello Stato per cui ha dato la vita. Un impegno, questo, che nell’estate 2017 ha spinto il gruppo dei “volontari di Felonica” (e di Scarperia) fino in Russia, questa volta per riconsegnare alla storia e alle famiglie le spoglie di alcuni soldati italiani morti in Siberia. I volontari si autofinanziano e partono.
Nell’inverno del 1942-1943 la Seconda guerra mondiale infuriava in Russia. “Davai, davai!” (avanti, avanti!), gridavano i soldati sovietici verso le lunghe file di prigionieri che marciavano nel gelo senza potersi fermare, sospinti da quel grido e dalla paura di morire. Chi, stremato, restava indietro veniva finito con un colpo di fucile. I sovietici avanzavano sul fronte del
Don e a Stalingrado, e migliaia di prigionieri di guerra, tra cui molti italiani, venivano fatti marciare e poi caricati sui treni. Non tutti ce la facevano, per il freddo, le malattie, le ferite e la denutrizione. Allora i corpi venivano spostati negli ultimi vagoni che, una volta pieni, erano sganciati in prossimità di snodi o centri abitati per essere “svuotati”. Kirov era un avamposto logistico molto a est rispetto a dove si combatteva. Da qui i prigionieri ancora vivi venivano avviati ai gulag. Gli altri, quelli degli ultimi vagoni, venivano riversati in fosse comuni create usando l’esplosivo per scavare nel terreno ghiacciato a ridosso della ferrovia. Settant’anni dopo, nell’estate 2017, i due gruppi di dodici volontari tra i quali l’elettricista e la laureanda di Forlì si alternano lì, di fianco a quella ferrovia ancora funzionante: con le autorizzazioni di Onor Caduti coadiuvano il personale della locale Organizzazione Pubblica Volontaria Giovanile Ricognitori di Kirov nelle operazioni di ricognizione, delimitazione e sondaggio del terreno della prima fossa comune. È impossibile restare indifferenti al filmato che li riprende, nel fango, nel vento, in piena pioggia, intenti a disboscare e poi immersi in una buca profonda alcuni metri, con piccoli utensili, a scavare e ricomporre resti, brandelli di divise, a ritrovare bottoni, lavorando insieme ai russi per riconoscere alcuni tra coloro che non sono più tornati.
Scavano per giorni, a 3.700 chilometri di distanza dal Po. Il ritrovamento di un piastrino di riconoscimento italiano è accolto con parole ancora rotte dal pianto da uno dei ventiquattro volontari più anziani, quando mi racconta «si era perso, l’abbiamo ritrovato». Si chiamava Giulio Lazzarotti, aveva ventuno anni, era di Parma, Alpino della Julia, dichiarato disperso il 20 gennaio 1943. «Ho la sua età», mi dice il futuro ingegnere spaziale presente agli scavi che settant’anni dopo hanno permesso una conclusione degna della breve vita di quel suo coetaneo. Sono undici fino a ora i piastrini di riconoscimento recuperati, già restituiti dai “Memoriali Russi” alle relative Autorità nazionali, al fine di permettere i necessari approfondimenti. E sono stati recuperati anche i resti di altri 298 caduti italiani, ungheresi e tedeschi. In alcuni casi è stato possibile definirne la nazionalità analizzando il tessuto dei brandelli delle uniformi o gli accessori, come bottoni, medaglie, distintivi, o effetti personali. Molto, tuttavia, resta ancora da fare. Quelle fosse sono piene di nostri giovani soldati. Ecco cosa spinge a Kirov i “ventiquattro volontari di Felonica”: l’umana necessità di non perdere di vista la nostra storia, che abbiamo la responsabilità di conoscere e raccontare perché definisce quel passato che ci ha permesso di avere questo e non un altro presente. Al ministro della Difesa e alla sensibilità del Presidente della Repubblica, a tutti i cittadini che vogliono partecipare all’impresa umanitaria dei “ventiquattro di Felonica” faccio appello perché si metta a disposizione tutto quanto serve ancora affinché le salme dei militi italiani delle “fosse di Kirov” possano finalmente essere riconosciute e degnamente rimpatriate. La forza simbolica di questo atto, la ferma volontà di uno Stato di non affidare al tempo dell’“oblio collettivo”, il sacrificio dei singoli persi nelle pieghe della storia è di inestimabile valore. Lo è ancor di più in un presente storico che ha un disperato bisogno di coltivare e comprendere la forza della Memoria.
«Quando riesci a capire di chi era quella gavetta o mostrina, quando riesci a ridare un figlio un padre da piangere su una tomba, allora hai chiuso una storia personale. E puoi raccontarne una collettiva. Restituisci un corpo e una memoria». Simone Guidorzi, 45 anni, mantovano di Sermide, da gennaio è il direttore del Museo della Seconda guerra mondiale del fiume Po a Felonica. Coordina anche gli altri quattro musei a tema, tra Scarperia, Fidenza e la provincia di Bologna, guida le campagne di scavo, l’ultima in Russia, per recuperare i dispersi. Lo ha fatto come volontario per dieci anni mosso, spiega, «dai racconti delle mie nonne».
Dai musei al recupero dei dispersi nelle fosse di Kirov: da cosa nasce tutto ciò?
«Quando ero ragazzino le mie nonne Cesarina e Nerina mi raccontavano della ritirata dei tedeschi nell’aprile del ’45: l’attraversamento del Po con mezzi di fortuna, anche mastelle per il bucato, l’avanzata delle truppe angloamericane. Ma nei libri di testo a scuola non trovano nulla di queste storie. Ho deciso che dovevo ricostruirle».
Ora in mostra al museo ci sono gli equipaggiamenti dei militari recuperati lo scorso anno a Kirov.
«La mostra rimarrà aperta sino ad aprile, poi sarà itinerante. A Kirov abbiamo deciso di affiancare gli archeologi russi con tre missioni: ma abbiamo scavato un decimo di quelle fosse. Per questo lanciamo un appello: noi non possiamo più sostenere i costi, ci siamo pagati tutto da soli, dai badili al noleggio dell’escavatore. Occorrono fondi per continuare».
Che valore ha il recupero dei caduti?
«Per noi è un dovere, la spinta viene dalla felicità delle famiglie quando riesci a riconoscere un disperso. Più spesso si risale solo alle nazionalità, ma almeno puoi dare una degna seportura. La nostra è una missione: sono ragazzi che hanno risposto a una chiamata di leva durante la guerra, non devono essere dimenticati».
Tra i volontari tanti giovani, cosa li spinge?
«È il noi-come-loro che li motiva, si identificano in vite di chi aveva la loro età. La guerra in questo modo ha un’altra prospettiva: umana. Capisci cosa vuol dire essere vittima. Un potente messaggio di pace».
ELENA CATTANEO - Dopo la laurea in farmacologia inizia al Mit di Boston la sua ricerca sulle cellule staminali cerebrali. Dal 2003 professoressa ordinaria all’Università di Milano, nel 2013 è stata nominata da Giorgio Napolitano senatrice a vita: la più giovane della storia della Repubblica.